
“Tutte le famiglie sono…” com’era quella frase di Tolstoj all’inizio di Anna Karenina? Un suggello al contrario, una tautologia preventiva che, posta in premessa, annulla tutte le possibili dimostrazioni, una morale della favola che investe di sé tutto che viene dopo – e sono un bel po’ di pagine. Ah eccola: “Tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”. Frase profonda certo, e sentenziosa oltre misura e dirimente di un certo modo di pensar la famiglia, e poi la società, e poi la Storia e le storie, in una spirale infinita di addentellati che variamente, silenziosamente, perversamente – perfino – si (ri)compongono armoniosamente. Mi viene in mente tutto questo sedendo al buio al Piccolo Bellini di Napoli mentre guardo questo premiato Per il tuo bene che un giovane napoletano, Pier Lorenzo Pisano, ha scritto, diretto e messo in scena già l’anno scorso con la complicità di Emilia Romagna Teatro e che è arrivato a Napoli solo ora, raccogliendo l’applauso dei suoi concittadini, com’era giusto, se mai, che fosse fin dall’inizio.
Mi viene in mente Tolstoj, probabilmente perché Per il tuo bene riguarda certamente la famiglia e la sempre affannosa ricerca della felicità – e la fuga dalla sua avversa sorella, l’imprevista, non invitata ma sempre presente infelicità – tuttavia, probabilmente, nulla è più alieno di questa frase a questo lievissimo e urticantissimo lavoro, sicuramente il problema non sta nella felicità o nell’infelicità dei personaggi, come direbbe Tolstoj, in questo le due situazioni sono “del tutto simili”, ma, invece, riguarda il significato, la portata, le conseguenze ultime della parola “famiglia”, intendendo, con ogni evidenza, Pisano, qualcosa, pur etichettato con la stessa parola, radicalmente diverso da ciò che poteva avere in mente, all’epoca sua, Lev Tolstoj. E non solo perché “sono cambiati i tempi”.
Narra, Pisano, di una famiglia che non ha nome, perché ciascuno dei suoi componenti il nome proprio non ce l’ha, conserva solo il suo comune, potremmo dire il nome della funzione che svolge: dice all’inizio madre, per l’appunto: “Io ho un figlio, cioè sono una madre”. L’identificazione di ciò che si è, l’essenza profonda del proprio essere, viene posta fin dall’inizio in debito a ciò che si possiede, perché probabilmente ciò che si possiede – il modo con cui si possiede, la fisiopatologica presenza del figlio “all’interno” della madre – è tanto potente da giocare il suo ruolo in modo talmente pervasivo da far diventare “essere” ciò che all’inizio è solo “avere”, con buona pace di Eric Fromm e del ponderoso e famoso suo trattatello.
Ma, poi, che vuol dire “avere un figlio”, in ultima analisi, se non – diciamola tutta – possederlo, esser padroni, in fondo in fondo, della vita del figlio e del suo ultimo destino, volendogli bene, certo, “ mi dispiacerebbe molto se morisse, ecco, si, spero che non muoia”, ma in modo tutto particolare, da “madre”, appunto, con tutto ciò che di pervasivo e lieto, ma pure deciso ed egoistico, il termine possa contenere tra i suoi possibili, molteplici significati. “Io sono un figlio. Cioè ho una madre” risponde figlio, posto all’inizio, anche fisicamente e visivamente, un gradino più in basso di madre; e aggiunge: “Però non mi definirei in questa categoria di «figlio». Piuttosto direi che sono una «persona» a sé stante”, facendoci ben capire che questa decisa affermazione, per ora, nonostante viva da solo, lontano, in una città sconosciuta, è più una tensione che una situazione attuale, un fremente e orgoglioso desiderio di riscatto, una rivendicazione più che una definizione.
E ci dà pure la misura di come sarà, fin dall’inizio, lo stile usato dall’Autore: i cinque attori della pièce, che interpretano sette personaggi, praticano in fondo tra loro un dialogo ben risicato, che si limita più che altro a frase fatte, convenzioni più o meno raggelanti, pronunciate sempre con la caratteristica che è propria e immutabile per quel personaggio, che si rincorrono, parlandosi addosso più a beneficio di un supposto “pubblico” che degli altri personaggi, centrali o secondari che siano. Icone, invariabili nel tempo, simboli, maschere. Così, al centro è famiglia, con madre (Laura Mazzi), capace di dire le cose più terribili di questo mondo sempre con un dolcissimo sorriso stampato in faccia, troviamo figlio primogenito (Edoardo Sorgente), incapace, invece, di esprimere alcunché se non con un tono tra lo scostante e il seccato; egli ha ormai rapporti del tutto sporadici con madre, qualche telefonata svogliata, messaggini che si rincorrono importunamente, fino a che madre gli butta là, tra un “cosa fai” e un “cos’hai mangiato”, durante una di quelle scarse e comunque distratte apparenti comunicazioni, un “vieni, dài, papà non sta bene…” lanciato come un’esca nello stagno.
Torna a casa, figlio, allora, a ritrovare odori e sapori raggelati in un tempo diverso, certo, ma che conservano, in comune col presente, lo spazio di “casa”, geometrie familiari che sanno comporre, senza svaporare in sogno, castelli complicati e complesse relazioni: con zio (Marco Cacciola), per esempio, “statisticamente un pedofilo”, un numero di telefono importante ma “non conquistato, in qualche modo ereditato”, un parente a latere la cui esistenza completa la famiglia pur nella scontata e normale inessenzialità.
Soprattutto c’è secondo figlio (Alessandro Bay Rossi), con cui (ri)cominciare a tessere rapporti che sanno di mai sopite rivalità, gelosie, ammirazione, invidie, generosità e avidità, compensi e scompensi, ricattucci e malvasie, frantumati ricordi e opposte, divergenti dispercezioni; perché, poi, per quanto tempo possa esser passato, per quanto amore e fratellanza possano esserci, prima di figlio ce n’era solo uno, e tutto l’amore era suo, poi è venuto l’altro e resta per sempre la sensazione di un amore diviso in due, che è giocoforza dimezzato senza pensare che invece s’è moltiplicato: fantasie ricorrenti di figli, abusi del cuore che ignorano miracoli di pani e pesci che amano e sfamano contro ogni possibile apparenza.
Capricci dell’animo, conditi di frasi affettate, alle battute, volontarie o involontarie dei personaggi, rispondono sorrisi e risatine del pubblico che indubbiamente ritrova nelle situazioni e nei paradossi lacerti della propria esperienza familiare, e tuttavia ogni frammento rinvia sempre a qualcosa di omesso, di non detto, come se in quella casa, in famiglia, ci fosse una stanza buia dove tutto troverebbe, forse, soluzione, senso, scopo, premio o condanna che sia.
La famiglia allargata comprende anche due nonne, la prima, quella materna, interpretata anch’essa da madre, che passa dall’una all’altra con un ingegnoso gioco di costumi ideato da Raffaella Toni, sa di civetteria repressa e isterica rivendicazione, vecchiaia di rabbia e cruccio, orgoglio di un passato senza glorie ma comunque vissuto, “madre in pensione… madre diluita” il cui zucchero offerto i nipoti entra in potente, inevitabile, aperto contrasto con quello, piuttosto acre, di madre; e tuttavia conserva, nonna, ancora, pur nella grottesca apparenza di maschera stereotipata della vecchiaia insulsa che attende solo la liberazione della morte, tuttora apparenza umana: l’altra, invece, la nonna paterna, si materializza improvvisamente come “Nonnamat”, automatico e gelido spacciatore di banconote da 50, oggi euro, prima erano 50000 (lire), “non esistono altri tagli di banconote” per lei.
Se questa è famiglia, ciò che non è famiglia è molto ai margini, vive in un limbo che è condanna perenne ad un universo parallelo, abitato da sconosciuto (sempre Marco Cacciola), uomo della strada, portatore di valori in cui dobbiamo credere più per fede che per sperimentata esperienza, comparsa, rumore di fondo; più vicina, in orbita, potremmo dire, intorno a famiglia, è ragazza (Marina Occhionero), ragazza di secondo figlio, intendo, conquistata un giorno su acuto suggerimento di primo figlio che consigliò di parlarle di delfini, veri e di peluche, ma che comunque è fieramente convinta che non sarà mai famiglia, è pronta a lasciare il ragazzo un attimo prima che la lasci lui, un amore che magari potrebbe anche avere le ali per volare se solo avessero voglia sul serio di provarci, ma che s’incarta spesso su se stesso, si compiace delle stesse sue incertezze, che vive già l’inquieta luce del fallimento per carenza di coraggio e determinazione. Il padre, infine, semplicemente, non c’è, o meglio è scenografia, è un tavolo intorno a cui ci si riunisce e che sbilenca non appena lo si nomini, è il buio, l’interruzione del flusso di coscienza, l’assenza.
“Quando scrivo, metto in fila piccoli simboli di varie dimensioni. Sono gli stessi simboli che da bambino tracciavo sulla carta, scarabocchi senza senso, che disposti in un certo ordine hanno il potere di creare immagini. Gli incastri sono infiniti, ma ogni volta mi immergo in questo mare di possibilità nel tentativo disperato di estrarre un senso, un piccolo teatrino di segnacci che raccontino qualcosa di nuovo e bello”. Così dice l’autore, ed è proprio così, spesso nel corso della pièce hai l’impressione che l’aggregarsi leggero di situazioni e di stereotipate condizioni altro non sia che preludio, premessa ad una epifania sempre incombente, che alla fine si materializza nella malattia della madre: non che questo porti a disperazione, la pièce viaggia fino alla fine suscitando un fine sorriso ironico in chi guarda, la leggerezza, pur se graffiante, continua fino alla fine ad essere la vera cifra di questo spettacolo, riuscendo tuttavia a velare di malinconia il finale, lo sguardo sul futuro dei giovani innamorati, incerto tra speranza e disinganno, e la partenza di primo figlio, “ora bisogna salutarsi sul serio, che non si sa se ci rivediamo, ora ci vogliamo bene, si vuole bene all’ultimo, quando è troppo tardi”.
Il testo di Pisano è vincitore del 12° Premio Riccione “Pier Vitorio Tondelli”, la motivazione della Giuria, tra l’altro, afferma che l’Autore “è riuscito a individuare una particolare angolazione da cui parlare con sorprendente vitalità di ciò che ormai è divenuto quasi irrappresentabile, il mistero del legame che unisce una madre a un figlio”. Ecco, probabilmente l’irrappresentabilità della famiglia ben ci parla, in fondo, dell’evoluzione e della metamorfosi, ancora in atto, della famiglia stessa, aver trovato una possibile strada per fotografare questo processo in atto è il grande, riconosciuto merito di questa pièce che, nella leggerezza, riesce a rappresentar tutti, sospesa com’è tra delfini e frullar d’ali, ricatti del cuore, scarabocchi dell’anima.