
All’aprirsi del sipario del Teatro Metastasio di Prato per la prima di Donna Rosita nubile, ci troviamo di fronte, con un po’ di sconcerto per chi conosce la trama, all’inizio del terzo e ultimo atto della drammaturgia poetica di Federico Garcìa Lorca.
Questo “inizio” verso la fine del dramma accompagnerà tutta l’interpretazione dell’opera da parte degli attori, come se la storia fosse raccontata e vista attraverso i ricordi dei personaggi, in una vecchia pellicola che a fatica si riavvolge.
La vicenda dell’opera lorchiana narra della giovane Rosita, innamorata di un suo cugino, il quale dopo averle promesso di sposarla, se ne va e per anni le manda lettere piene di bugie, nascondendole che nel frattempo si è sposato con un’altra. Ma oltre alla storia vi è pure la rappresentazione della parabola triste del tempo, dell’amore e della vita che passano lasciando briciole di ricordi.
Nel testo i tre atti sono distanziati di un decennio, 1885, 1900, 1910: le scene, la moda dei vestiti e delle acconciature, accuratamente precise, le parole dei discorsi, le situazioni segnalano il passaggio del tempo esterno, mentre all’interno della casa avviene la paralisi della protagonista.
Il peso su cui poggia il dramma sono, come spesso avviene nei testi di Lorca, le donne. Oltre a Rosita, che appare brevemente nei primi due atti, le colonne portanti della casa sono la zia e la nutrice che vivono in prima persona, più di Rosita stessa, la sua disgrazia.
Il ruolo maschile oltre all’amato cugino e ad altri piccoli personaggi, viene incarnato dal paterno zio, amante dei fiori e coltivatore della “rosa mutabilis”, pianta che in un solo giorno sboccia di color rosso vermiglio al mattino, diventa bianca alla sera e quando arriva la notte inizia a perdere i petali e a morire. Il carattere di Rosita, come la “rosa mutabilis”, nei tre atti dell’opera attraversa diverse fasi: innamoramento, attesa e speranza, disillusione e rassegnazione.
Il dramma vero e proprio di Rosita rispecchia la falsità della borghesia, che si nutre di assenze di parole, incapace di comunicare con gli altri. Dietro questo suo muro di silenzio, ella vede passare gli anni della giovinezza, la malinconia del tempus fugit, da bambina a donna che sfiorisce nell’inutile attesa del fidanzato che non tornerà e, come la “rosa mutabilis”, anch’essa « quando arriva la notte va lentamente sfogliandosi».
Su di un palcoscenico freddo, dove pavimenti, tende, sedie e pianoforte sono completamente bianchi, si scioglie la storia di Rosita, ed è forse il ricordo la chiave di lettura della messa in scena prodotta dallo storico Piccolo Teatro di Milano.
« Niente è più vivo di un ricordo, i ricordi ci rendono la vita impossibile», questa battuta emblematica del testo si sposa appieno con il lavoro sull’attore, l’esegesi del testo e la linea registica di Lluìs Pasqual, che da anni sta portando con successo sulla scena dei teatri i testi di Garcìa Lorca.
Gli attori pare si muovano sul palcoscenico già consci di quello che dovrà avvenire, sommessi, pesanti e disincantati. Non si ha la benché minima idea che gli anni stiano passando, il tempo e lo spazio restano sospesi, come nel mondo dei ricordi. Persino la “piccola” Rosita del primo atto, non si mostra giovane e “bambina”, come la chiama la zia, ma anzi ci appare già carica del dramma che di lì a poco andrà a compiersi. Ed anche l’innamoramento con il cugino è solo un ricordo mistificatore che le polveri del tempo hanno reso sbiadito e bianco come la scena.
A scuotere l’aria ovattata sono le musiche teatrali di Arrizabalaga e i balli con le Manole, le zitellone e le ragazze Ayola che si alternano nei “giardini” dell’opera.
All’interno di un cast di attori affermati, pluripremiati e legati da un fil rougecon il Piccolo di Milano come Gian Carlo Dettori e Franca Nuti, spicca la splendida interpretazione dell’esperta Giulia Lazzaroni nei panni di una energica e carismatica nutrice, vero punto di forza dello spettacolo. Nel ruolo di Rosita si è mossa invece con non poca difficoltà Andrea Jonasson, raramente vera nell’interpretazione, procede di esperienza senza riuscire a trasmettere in pieno il dramma e la tridimensionalità del suo personaggio.
Uno spettacolo al di sotto della poesia impressa nel testo lorchiano, con un adattamento che non entusiasma in pieno e non porta trasparenza e comprensione, perdendo quelle sfumature fondamentali che dovrebbero caratterizzare lo scorrere del tempo non solo degli spettatori in sala, ma anche degli animi dei personaggi in scena.