
Pare quasi anche Guy de Maupassant essere d’ispirazione per la femme fatale protagonista dello spettacolo di Alessandro Riccio, Bruna è la notte. Quella casa Tellier della meravigliosa novella, dove «le tre signorine del primo piano erano il riassunto di un tipo femminile, affinché qualsiasi cliente potesse trovarvi la realizzazione del proprio ideale».
Si affresca qualcosa di molto simile nell’atto unico, recitato e cantato, dell’attore fiorentino, che veste i panni, anche psicologici, di una dirompente e sboccata soubrette ormai sfiorita, segnata da una vita impietosa intessuta di piccole apparizioni divine – la poesia e la musica – senza le quali, dice Bruna, non si potrebbe vivere.
Riccio sfoggia notevoli doti imitative, e una marcia in più rispetto ai cantanti da pianobar; regalando al pubblico intonazione, interpretazione, estensione vocale. Insieme a un repertorio in grado di catturare più generazioni, quelle che hanno subìto la guerra e provano commozione ascoltando il remake, fra le altre, di Parlami d’amore Mariù, o le più giovani, attratte dai doppi sensi e dalla malizia delle strofe. Canti irriverenti e popolari, sorprendentemente messi in scena, rievocando la temperatura bollente dei cabaret e vaudeville del primo Novecento.
La femminilità ferita di una donna navigata nasconde bagliori duri da afferrare per un attore maschile – senza scivolare nella macchietta. Alessandro Riccio riesce nell’impresa di dipingere il grido interiore mascherato da aggressività e narcisismo; la generosità d’animo; o quel disprezzo per l’amore carnale, ultima carta da giocare quando l’uomo amato è fuggito. Lo fa riscattando una drammaturgia talvolta sfilacciata che si affida a battute facili e un po’ volgari, che non creano pienamente l’acuto parossismo per svelare il destino della protagonista.
Bruna intona il tradimento e le promesse non mantenute, la rabbia, la follia di un gesto violento. Quasi riaffiorano alla mente, per assonanza, la fragilità con cui Giulietta Masina si aggira per le strade di Roma in Le notti di Cabiria, e l’orgoglio di Anna Magnani in Risate di gioia – dove l’abisso si apre per poi richiudersi miracolosamente. Amalgamare le scene, tra una canzone e l’altra, renderebbe questo spettacolo ancora più intenso e organico.
Com’è stata l’infanzia di Bruna? Com’è che è finita in via del Campuccio? Chi era l’uomo che l’ha abbandonata? Come ha conosciuto il pianista e fisarmonicista che l’accompagna nelle sue tournée sgangherate? Un goccio di gin ancora, e il passato potrebbe riaffiorare in futuro.