Lear. La storia d’una classica evidenza

[rating=3] La scelta del regista è evidente fin dalla prima scena, o meglio addirittura ancor prima – come chiamar la lenta pantomima che precede l’Atto: prologo? – in cui si fa mostra di citar Mantegna con insistita e convinta inverecondia, apparenze fantasmatiche di Compianto sul Cristo morto immerso in atmosfera affocata e fosca e tuttavia agito in distaccati algidi robotici gesti dalle non pie donne che manco una lacrima si fanno scappare. E, più oltre, al culmine del delirio, appare il re con sulla testa diversa corona – rispetto alla prima, spezzata in due dalla rabbia dell’esordio – corona di spine che se – comprensibilmente – ne sottolinea da un lato la sofferenza e la follia, incredibilmente indica, allo spettatore ignaro, inevitabilmente un modello e, forse, qualcosa in più e al di là, rompendo, forse, nelle intenzioni registiche, il consueto ortus conclusus che, da sempre, costringe l’opera del Bardo in stretta e concreta laicità.

Lear. La storia

Coprodotto dai Teatri Stabili di Napoli e Catania, è di scena in questi giorni al Mercadante, qui a Napoli, Lear. La Storia, nell’adattamento – dalla traduzione di Masolino D’Amico – scene e regia di Giuseppe Dipasquale, che vede protagonista Mariano Rigillo: un appuntamento che l’anziano attore napoletano ha voluto onorare ad ogni costo, pur perdendo per strada – rimaste a Catania – scene e disegno luci. L’agitazione dei dipendenti del Teatro siciliano, cui si è unita anche quella dei dipendenti napoletani, ha voluto dar segno, in questo modo, della sofferenza dell’oggi del teatro in Italia, ch’è solo, probabilmente, riacutizzarsi dell’antica e cronica malattia che da tanto l’affligge: entra, in tal modo, la Storia, quella vera, nella finzione scenica, costringendo questa a far i conti con quella, e non sai più dove finisce l’una e comincia l’altra. Non so com’erano le scene, ma l’allestimento mi è sembrato funzionare lo stesso, anzi il palco spoglio aggiunge probabilmente un che d’asciuttezza e concentrazione a uno spettacolo che dura tre ore e passa. I problemi, se mai, son altri: forse l’insister tanto in tanti simboli porta al paradosso effetto d’annullarli, per cui te ne esci alla fine non certo stanco o annoiato, purtuttavia né manco entusiasta o rapito: tutto scorre via come deve scorrere, certo, ma, pure, all’assenza di gravi errori o strafalcioni, o di cadute sciocche e volgari, corrisponde la mancanza del guizzo geniale, dell’ingegnosa trovata, del teatro, insomma, come scoperta e meraviglia.

Ammiri certo, prima d’ogni altra cosa, l’arte nobile di Mariano Rigillo: attore dalla strana sorte, tanta televisione in gioventù, sì da esser molto popolare presso molti ex giovani, relativamente poco cinema e pure teatro, certo, Patroni Griffi, in primis, ma pure Shakespeare – lo ricordava proprio lui in una recente intervista ­– oggi sopravvissuto e onestissimo professionista del palcoscenico, perviene a Lear con l’età giusta per farlo e non mi va di condivider l’ironia di chi dice averlo mai visto attor giovane nei panni del prence di Danimarca, come s’addice – o s’addicerebbe – a chi s’accosta, in vecchiezza, a uno dei ruoli più complessi che il Bardo abbia mai scritto. Sta di fatto, io dico, che riesce a donare a Lear un sapore che sa d’asciutto e ritorto legno, come fosse una vecchia quercia arsa e dura ma pure dove ancor ritrovi il verde di foglie, nella voce pastosa, nel gesto cui perdoni con facilità certe larghezze enfatiche,  nelle giuste misure e tempi che, con tanta apparente naturalezza, prova a donare a ciò che dice e fa sul palco. In altro modo e in diversa guisa, il Fool dalle segrete saggezze è la degna sua compagna: Anna Teresa Rossini è un Matto  – Scaramacai senza lagnose malinconie – che nel frac grigio chiaro e nel cilindro sa esternare, anche esteticamente, quel vago segno d’infanzia tenera e meravigliata che ben s’addice a stare accanto al personaggio ch’è simbolo stesso della paternità, ben più delle sue stesse carnali figlie. Che, per legge di contrappasso, con tutta evidenza, son pur esse en travesti, Regan di Roberto Pappalardo e Goneril di Luigi Tabita, almeno quelle cattive, perché la dolce Cordelia è invece interpretata da Silvia Siravo, forse con qualche cedimento a un’ottica lapalissiana che, evidentemente, porta ad attribuire caratteristiche maschili al male e femminili al bene; al di là della bravura degli attori, che ne danno un’interpretazione ben lontana da ogni macchiettismo, perché non tentare un passo un po’ più lungo e audace, imbrogliando un po’ le acque e le lingue? A ognuno il suo mestiere, certo, ma le scelte registiche, come detto, ci son sembrate alla fine piuttosto ovvie, al limite, talvolta, perfino del banale, pur nella potenza visiva che talvolta lo spettacolo sa raggiungere.

Lear. La storia

Si veda, a mo’ d’esempio, la scena della divisione del Regno tra le figlie, l’origine, in fondo, di tutti i mali che ne scaturiranno: indossa, Lear, per l’occasione, una veste particolare che sembra una vasta carta geografica, un coacervo, evidentemente, di città e regioni, di cui pian piano di spoglia, per consegnarlo alle figlie. E tuttavia questa veste, dalle ampie maniche e misure, quando il re apre le braccia, lo fa sembrare una macchia di colore, mostruoso Rorschach che, come quello, ha il compito di saggiare e giudicare impudenti follie ed eclissati egoismi. O quando, nella scena cupa della tempesta, ti vien di pensare a Bruegel e ai suoi ciechi, al trascinarsi spento e cupo sui sentieri dubbiosi della vita. Così questo Lear, che pure osservi di lontano, con l’aria del naufrago di Lucrezio che finalmente ha messo piede sulla terra ferma e contempla, con calma e tiepida allegria, la tempesta, arriva a possedere classica e pur selvaggia bellezza, ma sembra appartenere a eventi ben lontani che più di tanto non appartengono alla vita tua.

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