
Grandi critici del passato si sono scatenati per stroncare, interpretare ed infine osannare un testo così assurdo e così vicino a noi come Aspettando Godot, capolavoro di Samuel Beckett che nei giorni scorsi ha visto impegnati al Metastasio di Prato due grandissimi del teatro italiano come Ugo Pagliai ed Eros Pagni.
Oltre ogni spiegazione e critica la vera forza di Godot è l’humour. «L’humour et le nèant», «l’umorismo e il nulla» è la definizione tradotta di Beckett. Un humour all’inglese intrinseco nel testo, che ha permesso a questa opera di raggiungere un pubblico vasto e divenire la commedia più famosa e indecifrabile del drammaturgo irlandese. Ma “Aspettando Godot” non è una semplice commedia, Vladimiro ed Estragone hanno caratteristiche e umanità da vendere. La loro ingenuità, i loro controsensi, l’evidente sterilità della loro attesa, il loro aplomb perfetto cui segue un terrore irrazionale o un eccitato entusiasmo, l’insolita relazione da vecchie zitelle, che li lega, misto di tenerezza, di insofferenza, di consuetudine, le loro ansie e i loro rimpianti, tutto converge non solo a renderceli vivi e simpatici, ma comprensibili sin da subito. Ed anche lo spettatore più prudente, sorridendo non ha difficoltà ad accettarli, ma da questo squarcio di riso entra anche il silenzio di morte sotto il cui segno si svolge, in realtà, “Aspettando Godot”. Davanti a Godot si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un mondo fatto d’informe desolazione.
Fa parte del gioco di quest’opera sfuggente portarci sempre sull’orlo dell’illuminazione per poi ritirarsi indietro all’ultimo istante, come il paguro o la chiocciola ci fan capolino dal loro guscio. Quel che è certo è che sulla scena viene raccontata nel modo più apicale una condizione di cui ognuno di noi ha coscienza e che presenta un’immagine schiacciante della vita, in cui soltanto il più ottimista degli ottimisti può fare a meno di riconoscere le nostre relazioni, il nostro linguaggio, il nostro quotidiano brancolare. Non sorprende che la parola Godot sia entrata nelle leggende popolari ed è diventata sempre più un’espressione idiomatica.
Passiamo adesso alla produzione del Teatro Stabile di Genova alla quale abbiamo assistito.
La scena firmata da Jean-Marc Stehlè e Catherine Ranki è superba e in forma naturalistica dà vita alla “strada di campagna, con albero” dove Didi e Gogo si trovano ad attendere Godot. Le luci di Sandro Sussi sono altrettanto veriste ed evocative di pitture fiamminghe. L’intera scenografia ricorda una campana di vetro con insetti in un museo di storia naturale, dove gli attori si muovono all’interno di un testo e di uno spazio senz’uscita.
La regia di Marco Sciaccaluga è molto aderente alla stesura drammatica, non esce mai dal seminato e sa fornire equo spazio e giusti tempi alle pause, alle gags, ai calembours di Estragone e Vladimiro e soprattutto come già sopraccitato, all’ingrediente fondamentale di questa amara commedia: l’umorismo.
Per far girare l’orologio dell’umorismo, la commedia necessita di tempi sincroni e minuziosi. Sciaccaluga ha trovato due “lancette” che hanno scandito alla perfezione il tempo dell’humour: Ugo Pagliai ed Eros Pagni.
I due esperti e navigati attori hanno portato ai rispettivi ruoli di Estragone (Pagliai) e Vladimiro (Pagni) l’umanità e la sensibilità dei due grotteschi individui della storia, non oltrepassando mai il confine tracciato da Beckett, calandosi con somma maestria nel personaggio e mantenendo vivo l’equilibrio di tutta la commedia.
Tra gli attori non possiamo non lodare accanto ai due protagonisti la prova di Gianluca Gobbi nei panni di Pozzo e Roberto Serpi in quelli di Lucky.
Pubblico divertito e molto presente per tutto lo spettacolo, tant’è vero che il cast è stato richiamato più volte sulla scena dagli straripanti applausi, denotazione che negli anni l’alchimia del testo di Beckett, formata da sperimentazione e umorismo, si è dimostrata vincente.














