
Lucrezia Borgia. Un nome che è già da sè leggenda, intrigo, ma pure infamia. Già perchè la donna dissoluta e assassina restituita dalla storia è solo una maschera. La vera Lucrezia Borgia, figlia di papa Alessandro VI e sorella del Valentino, il temibile e sanguinario Cesare Borgia, è stata in realtà perlopiù una pedina. Merce di scambio da concedere in sposa per giochi di potere, di cui non poteva che essere vittima consapevole. Ma forse è stata per assurdo questa consapevolezza che i suoi detrattori non le hanno perdonato, offrendola in pasto alla memoria collettiva dentro un falso mito di capricciosa e maledetta. Mito peraltro, c’è da dirlo, alimentato da pettegolezzi e morale puritana a cui proprio grandi scrittori e poeti hanno attinto nel tracciare il profilo nero di Lucrezia Borgia.
Uno dei primi a svestirla di quest’abito stretto e ostile, dopo Maria Bellonci considerata sua biografa ufficiale, è stato Dario Fo, col suo romanzo La figlia del papa, poi traslato in uno spettacolo teatrale. Peraltro uno dei suoi ultimi, allestito nella Rocca di Nepi, di cui Lucrezia fu signora e ottima governatrice. Eppure questa buona fama attestata da atti, lettere e documenti minuziosamente raccolti da più studiosi nel corso del tempo, non è bastata. Non è bastato nemmeno l’ideale processo a Sermoneta, che nel 2022 dopo 500 anni di fango ha prosciolto Lucrezia dall’accusa di avvelenatrice. La favola della femmina astuta che eliminava mariti e amanti con veleni vari, la Cantarella, ottenuta dalle carni suine macerate nell’arsenico o l’Acqua Tofana, estratta dalle ali della cantaride, la famosa «mosca spagnola», sopravvive.
Ancora oggi il nome di Lucrezia Borgia è associato popolarmente a quello di una donna malvagia e libertina. Forse allora l’unico modo per ridarle piena dignità storica è banalmente quello di offirle una voce. Un palco. È quello che fa l’intensa scrittura di Antonella Cilento in Insight Lucrezia, portata in scena con la regia di Carlo Bruni al Festival Chièdiscena nei giorni 5,7 e 8 aprile 2025 nei teatri Rossini di Gioia del Colle e Luciani di Acquaviva delle Fonti. Sì una voce, finalmente, laddove invece il suo fu perlopiù un corpo, indecente profferta del padre e del fratello. A incarnarla e a restituirle il diritto di parola una straordinaria Nunzia Antonino. È lei la protagonista di questo viaggio profondo fra le viscere e i pensieri di Lucrezia, di cui attraversa le età e le emozioni in continua altalena.
La scena si apre col decalogo di un banchetto, quello per il terzo matrimonio di Lucrezia con Alfonso D’Este a Ferrara. Un infinito elenco di prelibatezze e il rituale ciclico di una vestizione che già prepara il pubblico all’incontro con la maschera-Lucrezia. Quell’abito cucitole addosso da altri, in cui la Antonino si muove ora con l’agilità di una giovinetta, ora con la costrizione di una donna a cui fu impedito il vero esercizio della libertà di scelta. L’abito che stringe e di cui infine si spoglia per tornare ad essere “solo Lucrezia”, senza quel cognome pesante come una lama sanguinolenta.

Nunzia Antonino incontra la scrittura di Antonella Cilento in una danza, altra vera protagonista del testo, che si costruisce anche grazie alla musica dell’ensemble Orfeo Futuro. Le sonorità antiche ma al tempo stesso elettroniche, evocano una dimensione rinascimentale ibrida, in cui si plasma il movimento e prende vita lo scambio dialogico con la servetta. A interpretarla Adriana Gallo, che in abito cenere in contrapposizione a quello fastoso della dama (costumi di Luigi Spezzacatene), sembra alludere proprio all’ombra. Ma anche al ricordo infantile della Lucrezia bambina, rappresentata efficacemente da una bambola nuda. Marionetta di plastica nelle mani di uomini potenti. D’altro canto il simbolismo di Insight Lucrezia è preponderante, articolato al millimetro sulla potenza dello spazio scenico di Bruno Soriato.
La regia di Bruni è costruita tassello dopo tassello con la perspicacia e l’attenzione al dettaglio di un maestro. Dalle scarpette rosse simbolo di violenza, al trono in discesa, verso la caduta, posto come al centro di un’ideale croce. E su di essa quasi in un tableau vivant, si posiziona Lucrezia in una delle scene più vivide. Il capo all’indietro, le braccia spalancate, quasi crocifissa al contrario, come Pietro, per umiltà e rispetto verso Cristo. Ma pure ad ammiccare provocatoriamente all’inversione di una fede che l’aveva solo usata. E poi ancora le candele, tante quante le conquiste del papa, i cuscini a simbolo delle otto gravidanze, ma pure dei numerosi aborti. Quadri di luce che sagomano l’aria, la scena, le performance in campo con incredibile palpabilità. Una regia impeccabile.
Non da meno le interpretazioni. Nunzia Antonino è una regina che domina ogni singola asse di palcoscenico con la misura e la grazia di una consumata artista. Si fa espressione dell’asset registico, mettendosene con umiltà a servizio, ma al tempo stesso lo guida, in qualche modo lo reinventa, senza tradirlo. I registri variopinti di voce e gesto in cui riesce a spostarsi incantano il pubblico e lo incatenano al suo sguardo. La mimica è serrata, continua, perfetta, mai esacerbata. Adriana Gallo le fa da contraltare, muovendosi con eleganza negli spazi di scena pennellati da Bruni di fumose densità, per poi emergerne solenne come una guardiana del faro. Una coppia di talenti che districano abili una drammaturgia complessa, ricchissima, che chiede al pubblico un’attenzione famelica, a cui però è un piacere arrendersi.
Una gemma teatrale questa Insight Lucrezia, di cui Orfeo Futuro è parte integrante, non complementare. La musica e la luce sono personaggi in scena pieni di vibranti intensità tanto quanto le attrici e regalano allo spettatore un vero e proprio viaggio dentro Lucrezia, con tutte le accezioni poetiche e non che se ne possono cogliere. La bellezza dello spettacolo sta proprio in questo. Non cerca assoluzioni nè scava sentenze, offre semplicemente il ritratto il più verosimile possibile di un essere umano. Non ultimo una donna, purtroppo, da sempre, la creatura più facile alla condanna. Bravi tutti.