Odissea a/r alla ricerca del padre perduto

Emma Dante a Napoli al Teatro Bellini dall'8 al 13 novembre con Odissea a/r, personale e collettivo contributo alla ridefinizione della paternità

Approda qui a Napoli, al Bellini, l’ultima fatica di Emma Dante, Odissea a/r, lavoro nato dallo studio e dalla ricerca della “Scuola dei mestieri dello spettacolo” del Teatro Biondo di Palermo, diretta dalla regista siciliana e presentato anche, l’estate scorsa, al Festival dei Due Mondi di Spoleto, un mondo e una tematica, quello dell’Odissea, già affrontato in precedenza dalla regista: mentre Io, Nessuno e Polifemo era, però, pretesto per uno spunto autobiografico in teatro, sul teatro e per il teatro, questo lavoro è invece sostanzialmente frutto di riflessione sul dialogo e sul rapporto tra il mondo adulto e quello giovanile, in un momento di forte crisi del maschile in generale e della paternità in particolare, alla ricerca di un nuovo equilibrio, ancora troppo precario.

In tal modo Emma Dante racconta il suo personale apologo dell’Odissea, non tanto, dunque, interessata al viaggio in sé, non si vedono Ciclopi e Lestrigoni, né madreperle coralli ebano e ambre: l’obiettivo è sui protagonisti del viaggio, Ulisse che torna dopo anni (ri)trovando un mondo del tutto diverso, Telemaco che parte alla ricerca del padre – la Telemachia dei primi quattro libri d’Omero – e cambia anche lui, crescendo, diventando uomo. Il senso del titolo è tutto qui, in una “andata” – che è itinerario di crescita e di riconoscimento che ognuno deve compiere, ma che oggi, di fronte alla crisi della paternità, acquista un significato più profondo e più vero – e in un “ritorno” – che è riacquistare il senso di quella paternità perduta, attraverso un “riconoscere” che è, prima d’ogni altra cosa, ritrovare se stessi.

Odissea a/r 2

Nessuna nostalgia, allora, per il pater familias, il cui tempo è irrimediabilmente – inequivocabilmente – scaduto: la riflessione approda, invece, alla ricerca – in un ipotetico e perdurante viaggio, che diventa inevitabilmente e provvidenzialmente itinerario di maturazione – di ciò che resta del padre nel riconoscersi figli, di ciò, insomma, che comunemente si chiama eredità, retaggio, lascito. In questo, a ben vedere, il percorso di Telemaco è del tutto speculare rispetto a Edipo, finendo per tracciare, i due personaggi simbolo, una parabola del tutto opposta e simmetrica: il padre non viene più riconosciuto rivale da necessariamente soppiantare e, più o meno metaforicamente, uccidere, ma la sua assenza viene invece avvertita come nomos perduto, scomparsa del diritto che genera giustizia, eclisse della legge che espone il mondo a rischio di ogni prevaricazione e prepotenza; e se lo sguardo di Edipo si lascia perdere, infine, nella notte dell’oscurità e della cecità, quello di Telemaco non smette mai pervicacemente di scrutare il mare. Se è vero che la domanda di padre, come diceva Nietzsche, rischia di trasformarsi in vana attesa del nulla, generando innumeri Didi e Gogo in eterna sospensione d’attesa di Godot, è però possibile invece un’attesa attiva, che si fa viaggio, ricerca, cammino, sciogliere le vele dell’entusiasmo della scoperta, nella consapevolezza lucida che dal mare, alla fine, non tornano dèi, flotte invincibili, leader carismatici; il mare restituisce invece uomini fragili, facili al pianto e allo scoramento, profughi in un mare di mezzo – sinonimo di male – che tuttavia a volte riesce perfino a unire: sarà nelle vesti del migrante senza patria, rigurgitato dal mare come uno scarto, che Telemeco riconoscerà il principio della sovranità e della giustizia smarrita, e troverà la forza per liberarsi dei Proci volgari e millantatori.

Si vede allora, all’alzarsi del sipario, entrare a ritmo sincronizzato – è, il ritmo, uno degli elementi fondanti della pièce – la “schiera” dei giovani interpreti, in fila indiana, tra gesti e mimica che rimandano al caos primordiale – il mito è sempre in trasparenza – da cui prendono in breve a definirsi alcune figure: vera e propria genesi che dal mondo primordiale delle ossa della gran madre terra genera uomini e donne. E dèi. Perché la prima scena, vede proprio loro, gli eterni abitanti l’Olimpo, protagonisti, come del resto nel testo omerico: Atena e Nike chiedono a Zeus di darsi una mossa e dare una mano a Penelope e Telemaco: in assenza d’Ulisse i Proci spadroneggiano nella reggia di Itaca. L’umanizzazione degli olimpici passa per la rappresentazione umanizzata d’eroi e divinità: il padre degli dèi è un vanesio culturista in gonna (segno di contraddizione e d’inclusione dei contrari), i Proci sono volgarissimi bulli di periferia che ruttano, sputano e blaterano in puro siculo, Telemaco, che entra nella scena successiva, è un bamboccione fragile e pauroso, incitato a forza da Atena a darsi un contegno, Penelope appare avvolta da un burka nero, imparentato con la sua tela, sudario di morte, le ancelle sono squinzie vogliose di darsi in braccio ai nuovi potenti: impietoso ritratto dell’umanità dell’oggi che riflette quella di dieci secoli prima di Cristo; l’uomo, con i suoi vizi, le sue debolezze, non cambia poi di molto, evidentemente, attraverso lo scorrere del tempo.

Odissea a/r 3

Lo spettacolo, come spesso sa fare Emma Dante, canta la potenza e la passione, diventa visionario affresco carnale e fisico attraverso i 23 bravissimi ragazzi che con i loro corpi e la loro carne non solo interpretano i personaggi, ma descrivono pure i paesaggi, i palazzi, il mare, magari con l’aiuto d’oggetti estratti di volta in volta dalle scatole nere poste sul palco, icone che colorano e assumono di volta in volta significato di situazioni, pensieri, idee, elementi: indicatori di suggerite e sottaciute emozioni che mutano al mutar della brezza e della corrente, come il mare. E alcune scene hanno eccezionale potenza visiva, tale da incendiare i sentimenti, pur nella essenziale e apparente povertà dei simboli: così la lunghissima tela di Penelope, nera come un sudario di morte, che riempie la scena, tesa fra due file d’ancelle; o le bianche vele – drappi candidi agitati al fremito dei marosi e dell’impazienza – che accompagnano la partenza di Telemaco; il lungo nastro di carta su cui le ancelle scrivono la lettera d’amore di Penelope a Odisseo, lacerti d’amore che si fanno mare; e mare, acqua, lacrime, son la bacinella in cui Odisseo immerge la testa per rialzarla con forza: spruzzi d’acqua salata. Suggestioni, geometrie di corpi che costruiscono coreografie fantasiose e fascinose: nella loro nudità rimandano all’innocenza smarrita di un paradiso perduto.

Odissea a/r 4

Infine, il testo e la musica: il testo è, spesso, anzi, il più delle volte, diretta trasposizione del verso omerico, arricchito da inserti della contemporaneità che hanno di frequente coloritura ironica. Così il tono umoristico prende le distanze da ogni inopportuna celebrazione, demitizza pur umanizzando la vicenda. La musica, composta, per la maggior parte, da Serena Ganci e Bruno Di Chiara, è parte essenziale della pièce, ne sottolinea i momenti divertenti, aulici, solenni. Fino alla morte dei Proci e delle ancelle loro complici, lo sterminio di massa che chiude l’Odissea e lo spettacolo: per questo finale Emma Dante, a sorpresa, sceglie di mandare in sottofondo il finale de Les Dialogues des Carmélites di Poulenc, splendido e terribile canto di morte che accompagna le Carmelitane al patibolo, scandito prepotentemente dal suono lugubre della discesa della lama della ghigliottina e che perdura fino ai primi applausi – lunghi, convinti, calorosi – che il pubblico riserva alla rappresentazione, ai suoi interpreti, alla sua autrice e regista. Ci sarebbe da interrogarsi sul perché di questa scelta: una prima risposta è certamente che questo brano risulta, alla fine, molto bene adatto a chiudere lo spettacolo, descrivendo e sottolineando il senso di morte e di scoramento che improvvisamente si viene a creare, mentre Odisseo e la sua famiglia si ritrova attonita al centro del palco di colpo arrossato; forse, si potrebbe perfino azzardare che questo inno funebre è però, anche, e prepotentemente, canto che sottolinea – pur esso – un passaggio, un tramite, un viaggio verso un altrove incognito ma pieno di affascinanti promesse che superano le ansie e le paure e danno senso alle nostre povere vicende umane.