“Amletò”, dalla corte di Danimarca ad un equivoco alberghetto di Parigi

Una pregevole trasposizione di Shakespeare a Parigi

Stupisce, incanta e meraviglia non poco, l’applaudito allestimento di Giancarlo Sepe del suo “Amletò (gravi incomprensioni all’Hotel du Nord)” in scena fino al 12 dicembre al teatro La Comunità, dove si viene accolti da locandine, gigantografie e scritti autografi di Samuel Beckett.

In questa geniale rivisitazione il dramma shakespeariano è ambientato nella Francia del 1939 (da qui l’accento finale sul nome del protagonista), sullo sfondo dell’imminente guerra mondiale ed in particolare nelle stanze dell’Hotel du Nord  (si evoca il titolo del classico degli anni Trenta di Marcel Carné), un albergo di bassa categoria, frequentato da avventori di dubbia reputazione, squattrinati intellettuali, ballerine di can can e attori in cerca di fama, che diventa luogo di rifugio temporaneo per una umanità che affonda nel vizio e nel tradimento e dove, per Amletò, si materializzeranno le terribili  angosce e l’opprimente senso di vendetta e di infelicità.

I personaggi si presentano allo spettatore come pedine sulla scacchiera, sembrano marionette contraddistinte da targhe ai loro piedi che indicano da un lato il loro ruolo e dall’altro preannunciano il loro destino o carattere (incauto, ignava, complice, suicida, assassinato, usurpatore) e si animano al ritmo, ora dolce ora incalzante, di musiche toccanti e grandiose; il testo scompare e ci si ritrova in una sorta di film quasi muto, gli attori “recitano” esprimendo e trasmettendo con il proprio corpo un’ emozione non limitata né sminuita dalle parole, esternando i sentimenti attraverso una mimica straordinaria e permettendo, così, al gesto di diventare sublime rappresentazione del loro mondo interiore, dove le parole sarebbero solo superflue ed inutili appendici.

Lo sfondo è bello ed inquietante, l’impianto è fortemente simbolico e ci si abbandona inaspettatamente ad una storia raccontata da un silenzio urlante, gravido di tutto, romantico e allo stesso tempo struggente e a tratti divertente, che rapisce vista ed udito e la fantasia vaga inebriata tra Marcel Marceau, le Folies Bergères, Francoise Trouffalt, Jaques Tatì, Montmartre…

Lo scoppio della guerra
Lo scoppio della guerra

Lo spettacolo non lascia troppo spazio a battute d’arresto, anzi le atmosfere ed i luoghi si susseguono con un ritmo incalzante, mentre l’intensità dei volti dipinti di bianco, sapientemente illuminati ed estremamente espressivi, accompagnano i movimenti e la straordinaria mimica: la grande guerra, il fumo, i cannoneggiamenti, le marce militari, i generali nazisti, le fughe in macchina rese splendidamente dinamiche, sono tutti quadri visivi evocanti un Amleto dal sapore universale, senza tempo, afflitto dal complesso di Edipo, profondamente innamorato della bellissima madre Gertrude, anziché della dolce Ofelia. Attorno a questo amore impossibile, sia per Amleto, sia per Ofelia , si incastonano come gemme preziose tradimenti, vendette, gelosie, ripicche, adescamenti, maldicenze (motivi presi a prestito da I parenti terribili di Jean Cocteau). Al centro di tutto Amleto, impegnato a vendicare la morte del padre, ucciso per mano del fratello Claudio, anch’egli invaghito di Gertrude.

Sepe genialmente sceglie di adottare come linguaggio un divertente grammelot, un linguaggio-non linguaggio, un francese molto maccheronico e affatto difficile da comprendere, infondendo, a quella che è in realtà una tragedia, un azzeccato ed efficace elemento comico. Il suo lavoro nasce da un forte riferimento al cinema francese e dai maestri del realismo, la sua regia crea una sapiente dialettica tra luci, ombre e suoni che suggeriscono le magiche atmosfere di fumosi cabaret e di strade solitarie, tipici di una Parigi (ricorda la fantascientifica città immaginata da Fritz Lang in “Metropolis”) metafora del malessere della Francia, e dell’Europa tutta, colte nella tragica stagione dei regimi totalitari, creando un affresco impeccabile e concettualmente profondo sulla crisi dell’Europa di fine anni Trenta (ma è ovvio il riferimento alla crisi di quella contemporanea) e proponendo una riflessione sul tema della guerra e sulle ambiguità degli esseri umani che, per brama di potere, tradiscono affetti e legami.

Emanuela Panatta (Gertrude)
Emanuela Panatta (Gertrude)

Federica Stefanelli interpreta una struggente e innamorata Ofelia, il cui suicidio sul Canal Saint Martin viene pianto con ipocrisia dai familiari, mentre Emanuela Panatta è Gertrude, l’opposto femminile di Ofelia, entrambe nelle loro danze e nella loro sensualità ricordano lo stile di Marlene Dietrich ne “L’angelo azzurro”; Guido Targetti dà vita a un Amleto debole, tenero e complessato, una specie di marionetta (ricorda Pinocchio nell’aspetto), che attraversa tragedie storiche e familiari, pur rimanendo disincantato come un eterno fanciullo. Completano il cast: Manuel D’Amario (re di Danimarca), coperto da un velo come simbolo “spettrale, a tratti davvero esilarante, Alessio De Caprio raffinato interprete nel ruolo dell’usurpatore Claudio, Cesare D’Arco (Laerte) con un’eccezionale mimica facciale ed i validi Federico Citracca (Guilleme) e Sonia Bertin (Rose).

Belle le scene e belli i costumi di Carlo Di Marino,  davvero pregevole il disegno luci di Guido Pizzuti, estremamente raffinate le scelte musicali a cura di Davide Mastrogiovanni, unicamente splendide le foto di scena del maestro Pino Le Pera, direttore e coordinatore di produzione e dell’organizzazione della compagnia dello spettacolo.
Da non perdere, perché è un esempio di arte che parla agli occhi e nutre la fantasia.