Miseria e nobiltà non in napoletano ma in bolognaise!

[rating=3] Quattro sedie scompagnate, un tavolaccio di legno e una parete scura, grigia, un muro senza intonaco che sembra eroso dalla muffa, alto e imponente. Sulla scena tre donne appartenenti a due famiglie diverse, vestite di stracci, costrette a coabitare. La fame entra in scena subito, anche se in una città come Napoli, dove si svolge la commedia scritta dal famoso Eduardo Scarpetta, risulta forse più credibile che a Bologna, città famosa per il ricco e succulento cibo.

La commedia è interamente in dialetto bolognese e questo, se da un lato colpisce il pubblico di questa città con frasi ad effetto colorite e divertenti, dall’altro risulta un handicap per chi non è emiliano (come chi scrive, ad esempio) e non riesce quindi a cogliere la totalità delle battute. L’utilizzo del dialetto poi sembra autorizzare certi attori a strillare le battute, come se il pubblico fosse sordo mentre è solo desideroso di percepire le emozioni annidate in esse. Quanto detto si percepisce maggiormente nelle prime scene, perché poi Nanni Garella nei panni di Pascuèl, Vito in quelli di Feliz e soprattutto Umberto Bortolani che interpreta il cuoco arricchito Gaetano Semolone eliminano questa sensazione, o almeno la limitano molto. Anche loro recitano in dialetto ma con timbri mutevoli, con ritmi sempre diversi e con un’ostentata sicurezza che rende, e solo a queste condizioni, il dialetto un’arma in più e non un handicap dello spettacolo.

La storia è molto aderente a quella scritta da Scarpetta: Feliz e Pascuèl, salassatore uno, scriba l’altro, non se la passano certo bene e assaporano fino in fondo il significato del termine “fame”. I mille espedienti e i continui pegni di cappotti, coperte ecc non ce la fanno ad assicurare loro un’esistenza degna di questo nome. Tutti poi sembrano stuzzicarli appunto sul loro appetito, come il pretendente di Anzlèina, figlia di Pascuèl, che dice loro “buon appetito” varie volte dato che, a loro insaputa e per far colpo sulla giovane, offre il pranzo. Si crea così l’atmosfera giusta per la famosa scena in cui i cuochi entrano nella povera casa e consegnano ai presenti un enorme piatto di maccheroni, prima visti come un miraggio, poi annusati con desiderio e alla fine assaltati con impazienza. Nanni Garella in quest’occasione non segue il testo alla lettera, non “ricama” troppo su questa scena ma anzi chiude il sipario all’assalto globale dei maccheroni, mentre la versione ufficiale prevedeva il rientro del padrone di casa che coglie tutti con le mani nel piatto e il sugo sulle labbra, se non in tasca, a ballare per la contentezza. Anche in altre occasioni lo spettacolo si discosta dagli schemi comici originali, come ad esempio nella richiesta di aiuto del marchesino ai due poveracci al fine di sposare l’amata figlia di un cuoco, matrimonio osteggiato dalla famiglia nobile di lui. In altri casi invece è più vicino al testo di Scarpetta anche del film del 1954, dove per esempio Pasquale veniva trasformato da salassatore a fotografo, per non citare le innumerevoli scene aggiunte in questa versione, appositamente cucite addosso a Totò.

Feliz e Pascuèl si travestiranno nei panni di una famiglia nobile, andranno a casa del cuoco credulone e lo convinceranno a dare sua figlia in sposa al marchesino. Nel finale, ricco di gags esilaranti e colpi di scena, spicca il divario fra i ricchi visti come beoti e quasi marionette,  contrapposti ai poveri, persone in carne ed ossa con sentimenti e cuore.

Uno spettacolo divertente dove è stato privilegiato il ritmo comico rispetto alla recitazione, l’ironia e il divertimento alle scene con tonalità più “drammatiche” e introspettive. Il paragone che risulta quasi automatico fare è al medesimo spettacolo di e con Geppy Gleijeses e Lello Arena che fra l’altro si è tenuto sempre all’Arena del Sole nella presente stagione. Lì si era vista di più la fame e i sorrisi erano più amari e a mezza bocca rispetto alle risate che si fanno qui: un bell’esempio di come il regista e lo sceneggiatore, partendo dal medesimo testo, possono creare suggestioni ed emozioni molto diverse.

Nanni Garella è bravo sul palcoscenico ma soprattutto fuori, nel riadattamento del testo e nel lavoro di regia e direzione della compagnia di attori-pazienti psichiatrici dell’associazione Onlus Arte e Salute: quest’anno li abbiamo visti cimentarsi in un lavoro molto diverso, lo “studio sulla classe morta” al teatro delle Moline sempre con la regia di Garella, ulteriore prova che sottolinea la versatilità di cui sono dotati questi attori e il loro regista. Vito non si rivolge direttamente al pubblico come lo abbiamo visto fare nel “malato immaginario”, fa un altro tipo di lavoro, è concentrato e divertente, usa bene il dialetto e soprattutto è vero, umano. Però deve cedere il ruolo da protagonista al bravissimo Bortolani, sempre all’altezza della situazione perché in grado di credere egli stesso alla creduloneria del cuoco e quindi non la mima: l’unico modo per farci ridere davvero di lui.

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