Le donne, il mare, la notte poco prima della foresta

Arriva al Teatro Bellini di Napoli il monologo de "La notte poco prima delle foreste" di Bernard-Marie Koltès, regia di Lorenzo Gioielli, con Pierfrancesco Favino

Strana, la vita, mi veniva di pensare mentre, seduto sulla mia poltroncina rossa, aspettavo l’inizio della rappresentazione de La notte poco prima della foresta di Bernard-Marie Koltès, qui al Teatro Bellini di Napoli con Pierfrancesco Favino unico interprete, regia di Lorenzo Gioielli. Strana e beffarda perché, così spesso, riesce a costruire, zitta zitta, situazioni di puro umorismo nero, attimi d’incantato sbigottimento, momenti d’ironico e burlesco fraintendimento. Non è certo un autore facile, Koltès, vent’anni nel sessantotto, morto d’AIDS a quarant’anni, i suoi testi son conosciuti, certo, perfino nell’italietta nostra, le sue drammaturgie, spesso monologhi fitti fitti senza punti né virgole, da Roberto Zucco a Nella solitudine dei campi di cotone, a Lotta di Negro e cani, sono stati messi in scena da registi del calibro di Chéreau, Stein, Milenin, Nauzyciel, Warlikowski, in Italia Jodice, Adriatico, Longhi, Delbono, molti apprezzano la sua prosa affascinante, a tratti ossessiva, in altri momenti crepuscolare, sempre con un avvertito e vigile sottofondo di passione aulica e febbrile, un nervo scoperto di dolore quasi ingenuo e perfino accattivante nel suo continuo, (in)felice stupefarsi di fronte alla nostra contemporaneità santa e puttana come la Babilonia dell’Apocalisse di Giovanni.

Ma certo non è autore che si “vende” facile, è rimasto sempre un po’ ai margini del grande sistema produttivo. Eppure il “destino” ha voluto – beffa della società della comunicazione massificata – che questo poeta della devastazione postmoderna diventasse improvvisamente à la mode, alla stregua d’un Fabio Volo de’ noantri, presso i “consumatori”, dopo un’apparizione in tv di Pierfrancesco Favino al Festival di Sanremo dell’anno scorso che ne ha recitato un pezzettino.

Merito di Favino, certo, che in una notte di ordinario consumo ha voluto sottolineare con un testo del tutto alieno a quella situazione – e una grande interpretazione – l’irrompere della storia, quella vera, nel tempio incantato della poesia casereccia e seriale. Perché, se pur scritta in un’altro tempo, il 1977, anno di sangue e piombo, stupisce per l’incredibile attualità, sembra scritta nell’oggi tormentato delle migrazioni e dell’estraneità, dei muri che si costruiscono e dei ponti che saltano, dell’egoismo della nostra Europa sazia e disperata.

Si comprende come Chéreau possa aver detto all’autore, nel ’78, “non ci capisco niente” e poi averla messa in scena trent’anni dopo, si capisce il senso profetico di certe frasi, di certe situazioni solo dopo, solo per noi contemporanei di quarant’anni dopo. Così, nella notte, la pioggia in fondo bagna anche noi, siamo noi quel compagno fermato mentre stavamo “voltando l’angolo della strada”, nella notte, dallo straniero, al riparo precario dalla pioggia.

Perché piove, “non è il massimo quando ti piove in testa e sui vestiti”, lo straniero – lo senti dall’accento, lo straniero, lo vedi come si muove circospetto, lo avverti in quella postura troppo dimessa per esser naturale, studiata apposta per passare inosservato – ti dice che è stato “giù, per vedere se fosse possibile darsi una sistemata”, ma giù “ci sono gli stronzi”.

Non vedi nulla della città, del disastro contemporaneo, delle macerie che ci prendono alla gola, la notte è troppo buia e densa, come un liquido nero, ma ne avverti la puzza, dei ratti umani che si muovono in quel liquido osceno, dei “bastardi italiani” che danno la caccia ai negri, che ti danno un lavoro e poi se lo riprendono, il lavoro è “sempre da un’altra parte”, sempre più lontano, ha detto “basta, non lavoro più”, mi fermo qui, qui, prima che vengano le foreste, “laggiù c’è un vecchio generale che sta tutto il giorno e tutta la notte al bordo di una foresta gli portano da mangiare perché non si deve spostare che spara su tutto quello che si muove gli portano le munizioni quando non ce ne ha più mi parlavano di un generale coi suoi soldati che circondano la foresta tutto quello che si muove diventa un bersaglio tutto quello che compare al bordo della foresta tutto quello che notano che non c’ha lo stesso colore degli alberi e che non si muove allo stesso modo”.

Straparla un po’, lo straniero, e vorrei vedere, in questo “schifo d’incrocio”, non ti ha fermato per chiederti qualcosa, “né fuoco né sigarette né soldi”, il caffè “te lo pago io”, straparla di un “sindacato internazionale”, e poi di donne, eco, chissà, dell’eterno femminino che aveva sconvolto Koltès incarnato nella Médée di Maria Casarés che fu il suo personale sessantotto, per cui lasciò la scuola di giornalismo per dedicarsi al teatro.

Così la ragazza notturna seduta sul ponte e mai più ritrovata – “ci sono trentuno ponti nella città, per non parlar dei canali” – o la puttana impazzita che butta giù dalla finestra i vestiti del cliente – “le mutande e la camicia di seta venivano giù come paracadute” – o l’altra, che è morta mangiando la terra dei cimiteri – “quella profonda, vicino alla bara” – diventano, nella vivezza dell’evocazione, l’emblema di donne irraggiungibili nella loro assoluta, inalienabile alienità, perdute oppure impazzite oppure perfide, come quella “bellissima”, lasciata quando lo voleva arruolare “per dare la caccia ai negri”.

Il ritmo è tale, certamente grazie anche a Favino che riesce a creare e a tener desta l’attenzione per un’ora e un quarto, senza cedimento alcuno, che non solo ti scordi del tempo che passa, la regia di Lorenzo Gioielli è lieve e preziosa, ma riesci a figurarti pure, nel buio del palcoscenico nudo, abitato solo da una sedia, la sciagura metropolitana d’una città che la notte vomita fango e stritola carne e ossa.

La città, il mondo, lo immagini allora ossessiva prigione, la coazione a ripetere unica modalità espressiva, viaggiando sicura entro i binari di un simulacro di vita e comunicazione che tanto sarebbe piaciuto a Berne, così classicamente costruito sulla transazione nevrotica, malata, oscena, di “personaggi” che per forza di cose devono, per illudersi di vivere, scegliersi di volta in volta un ruolo, che si chiami, la nuova personificazione, “Vittima”, Persecutore”, Salvatore”, non ha alcuna importanza, necessario solo che ciascuno non giochi mai nello stesso ruolo, che chi si trova ad essere oggi vittima domani possa essere persecutore e dopodomani salvatore, pedine di un gioco malato che esiste perché possa evitare almeno il dolore di vivere.

Il gioco, allora, prende anche te, passando attraverso le parole scritte con lacrime e sangue e la voce dell’attore che quelle parole pronuncia, di volta in volta facendosi sussurro, risatina, grido, pianto – s’incrina spesso, la voce, e la diresti pronta a rompersi in lacrime – collera, paura; alla fine, quando con un ultimo singulto, la voce, ancora una volta sul punto di trasformar la pioggia in pianto, si interrompe e le luci si spengono del tutto, il pubblico rimane per alcuni secondi in silenzio, come in raccoglimento, come in una chiesa, come inseguendo i propri pensieri, per poi sciogliere, finalmente, la tensione in applauso, mentre la consapevolezza dell’impossibilità di vivere fino in fondo, d’improvviso si veste di musica, canzone d’un’epoca ormai svanita lontano, colonna sonora della contraddittorietà dell’esistere, l’esplosione della vecchia La mer di Trenet, che evoca mari “dai riflessi cangianti sotto la pioggia”, “uccelli bianchi” e “lunghi golfi chiari” d’un impossibile sogno.

 

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Attori
Drammaturgia
Allestimento scenotecnico
Pubblico
Articolo precedenteMenelao, uomo o eroe?
Articolo successivoEnrico IV e lo strappo nel cielo di carta
le-donne-il-mare-la-notte-poco-prima-della-forestaLa notte poco prima delle foreste <br>di Bernard-Marie Koltès <br>traduzione Giandonato Crico, Pierfrancesco Favino <br>adattamento teatrale Pierfrancesco Favino <br> <br>con Pierfrancesco Favino <br> <br>luci Marco D’Amelio <br>sound designer Sebastiano Basile <br> <br>regia Lorenzo Gioielli <br> <br>produzione Compagnia Gli Ipocriti Melina Balsamo <br>durata 70 minuti <br>in scena dal 26 febbraio al 4 marzo 2019 <br>Napoli, Teatro Bellini, 27 febbraio 2019