Menelao, uomo o eroe?

Menelao di Davide Carnevali spettacolo interpretato e diretto dal Teatrino Giullare

La polvere si addensa sui riccioli della folta capigliatura marmorea. Gli occhi tirannici della statua fissano l’infinito con dignità. Zeus domina la scena della Sala Thierry Salmon nell’Arena del Sole di Bologna, al debutto assoluto dello spettacolo “Menelao” di Davide Carnevali, interpretato e diretto dal Teatrino Giullare.

La statua prende vita e la sua testa si apre, partorendo un’idea: “Atena, di tutte le idee che ho in testa tu sei la peggiore”. Lo spettacolo è un mix di teatro delle marionette e del teatro con la T maiuscola, con tocchi di ventriloquismo, qualche spruzzata di mimo e molta mitologia, sebbene rielaborata profondamente. Il protagonista della piece è Menelao, l’eroe che nella guerra di Troia mostrò il suo coraggio in battaglia e che arrivò quasi ad uccidere Paride in duello: solo il provvidenziale intervento di Afrodite avvolse Paride nella nebbia salvandolo da morte certa. Dopo la vittoria, il nostro eroe fece ritorno in Grecia con a fianco la tanto agognata moglie Elena, la donna più bella del mondo, per l’eternità, data la sua natura non mortale.

Questa la mitologia, mentre lo spettacolo rovescia completamente l’idea che abbiamo dell’eroe: Menelao viene smitizzato e portato ai nostri tempi, le sue epiche imprese vengono sminuite e sbeffeggiate, tanto che, per ricostruirsi un’identità, è costretto a scrivere il libro delle sue memorie, “memorie di cosa che non hai mai fatto un cazzo?!”. Anche il confronto con il fratello Agamennone è impietoso: Lui muore sul campo di battaglia come un vero eroe ed ha un nome possente ed altisonante, mentre “Menelao è un nome moscio” e in battaglia non c’è mai stato. La depressione è dietro l’angolo, e niente può fare nemmeno Elena, sua bellissima moglie, che cerca invano di risvegliare almeno i doveri del re verso i suoi sudditi. Nemmeno un rapsodo, un cantore dell’epoca, può rendere meno indigeste le misere avventure del re con qualche abbellimento narrativo: “non posso trasformare un topo in un leone”. Il sarcasmo è tangibile e pungente, la figura di Menelao viene smontata pezzo per pezzo, emergendo la sua mediocrità che si contrappone all’eroismo dei suoi antenati. Menelao sembra l’uomo di oggi, che, paragonato ai suoi eroici avi, non può che fare brutta figura. Esilarante il battibecco con Elena (“forse all’inizio ti avevo idealizzata”) e quello con Agamennone già citato. Il re vede scorrere le giornate l’una simile all’altra: possiede tutto ciò che serve per essere felice, e proprio questo è la principale fonte della sua infelicità.

“Ho fatto un sogno, ho sognato… la vita”.

Solo nel finale cambia qualcosa, l’uomo afferra quella risolutezza che fino ad ora è mancata, ma il risultato è frustrante e allo stesso tempo divertente, il Fantozzi-Menelao lotta contro la sua natura, fallendo miseramente.

Non è la prima volta che il Teatrino Giullare si distingue e fa parlare di sé: non a caso ha collezionato negli anni vari premi della critica e anche premi UBU, confrontandosi con testi molto particolari e difficili, “la stanza” di Pinter e “Finale di Partita” di Beckett solo per citarne alcuni. Sul palcoscenico ricreano tante situazioni coreografiche, tanti mattoncini che ricostruiscono il puzzle originario. L’utilizzo degli oggetti non banale, i personaggi-pupazzi che escono da enormi tomi come a ricordarci il loro legame con la storia, la magia che si respira in certi passaggi (come il bagno in vasca di Menelao, con l’acqua che sgorga direttamente da Zeus) sono solo alcuni dettagli che fanno la differenza.

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