
[rating=3] Era convinto, August Strindberg, stavolta, d’aver centrato l’obiettivo: l’anno dopo aver scritto Il padre – che, inviato a Zola, ne ottenne per risposta l’apprezzamento per l’opera ma, insieme, l’autorevole parere di non conformità ai canoni del naturalismo positivista – ci riprovò con La signorina Julie, corredata dell’esplicito sottotitolo di Un dramma naturalistico. Non cesserò mai di stupirmi di come, soprattutto per l’arte moderna, tanto spesso i fini e i propositi dell’autore non corrispondano punto all’obiettivo – per quanto si abbia diritto a chiamarlo obiettivo – risultato finale: come si possa parlare di distacco e di neutralità dell’occhio naturalista nella descrizione del degrado dell’umana società in un dramma siffatto è veramente un mistero, di fronte, invece, alla visione partecipata, etica, dura e a tratti decisamente inacidita dell’autore, che tanto risente, invece, della nascente psicoanalisi. Né basti, a renderlo naturalista, nel senso ultimo di pura e semplice fredda registrazione dell’esistente, l’autobiografismo di comodo che tanto spesso vien chiamato a giustificare, motivare, spiegare: il figlio della serva Strindberg non è certamente il servo Jean, benché talvolta l’apparenza possa far sembrare il contrario, né la signorina Julie è Siri von Essen, la moglie baronessa e attrice che per prima ne vestì i panni, allo Studentersamfundet del 1889 (tantomeno è Victoria Benedictsson, la scrittrice che pure si recise la carotide con quattro tagli di rasoio in quegli stessi anni): suggestioni, certo, lacerti e brandelli di realtà che però son solo l’aggancio, il primum movens d’una messa in scena che tanto somiglia al metateatro psichico, allo spettacolo, cioè, che tante volte l’inconscio costruisce a nostro personale beneficio, nel delirio e nel sogno, negli incubi che spesso ci svegliano al buio.
Tutto questo per dire che, benché sia del tutto superfluo, la natura prettamente simbolica, onirica, e ostinatamente “dimostrativa” del dramma, consente ovviamente a chi s’accinge a metterlo in scena, di farlo non solo non tenendo in alcun conto il mero dato “realistico” presente nel testo, ma anzi obbliga e orienta, in qualche modo, il lavoro di regia su di una strada che non solo attualizzi, ma cerchi, per quanto possibile, di riprodurne, evidentemente con diversi mezzi modi e maniere di quelli usati dall’Autore, il senso di profonda avversione, scandalo, condanna, repulsione che provocò nei contemporanei; altrimenti si rischia di perdere del tutto il vero senso del lavoro e di compiere operazione di puro “recupero” e “documentazione” di un passato che, per quanto possa sembrarci abbastanza prossimo in relazione all’effettivo tempo trascorso, risulta invece remotissimo al nostro sentire: scandalizza ancora un rapporto sessuale in scena? E, soprattutto, come può essere realistico il successivo suicidio che ne deriva, in nome della perdita dell’onore? Si rischia, come si vede, di risultare di gran lunga meno realisti della realtà, o, quantomeno, di fotografare una realtà del tutto superata, prima che dagli anni trascorsi, dal nostro sentire, fissandola ingiallita in un tempo privo di reale risalto, nell’inevitabile appiattimento che produce il nostro ricordo del passato, luogo inevitabilmente monodimensionale. Evitare di far dire al pubblico seduto in platea “… ma, insomma, in fondo, uccidersi per una sveltina…”, come di fatto ho sentito ieri sera, in platea, qui a Napoli al Teatro Mercadante, tra gli spettatori miei compagni d’avventura, dovrebbe in definitiva, essere il primo dei compiti di chi mette in scena il lavoro, e se questo non succede, vuol dire che qualcosa, nonostante la lodevole cura e i sinceri intenti di Cristián Plana che ne cura l’adattamento (insieme ad Alessandra Guerzoni) e la regia, s’è in fondo inceppato, il meccanismo non risulta alla fin fine ben oliato, il gioco s’interrompe a metà. E questo nonostante il gran lavoro attoriale dei tre protagonisti, Giovanna Di Rauso (splendente quanto dolente Julie), Massimiliano Gallo (Jean cinico e baro), Autilia Ranieri (Kristin volutamente statica e inerte).
Plana costruisce la scena entro uno stretto e claustrofobico ambiente ferroso, che della cucina originaria nulla più ricorda, tranne un malmesso tavolino metallico con bottiglie di birra vuote che si rompono nel corso dello spettacolo. Una lunga scala a pioli, metallica anch’essa, sale verso l’altissimo soffitto (dodici tondi punti luce illuminano di luce bianca la scena, comandate da un enorme, coreografico interruttore a leva), accentuando il verticalismo dell’intera scena, a malapena contraddetto da una lunga serie di nude lampadine che l’attraversa orizzontalmente. Una pesante porta metallica, praticabile, si apre sul fondo, nero e buio, dando accesso presumibilmente al resto della “casa”. Il senso generale è di chiuso degrado, odor d’olio minerale e benzina, sapor rugginoso sulla lingua: dunque, già nella scena (di Angela Gavinaghi), è presente il forte senso di ascesa e discesa (la scala, la verticalità, le luci in un irraggiungibile alto) che costituisce uno degli elementi che caratterizzano l’opera, simbolicamente la grande voglia di ascesa sociale di Jean e, per contrappasso, il vertiginoso degrado di Julie; insieme all’altro tema, quello del genere (il maschio e la femmina, la femmina mezzo maschio – perché cresciuta ed educata come tale, l’attrazione sessuale, le prime conquiste del femminismo), confluisce, poi, a ben vedere, nell’unica grande questione della differenza (di censo, di educazione, di sesso, di cultura) che è la vera tesi dell’opera, in modo talvolta perfino troppo scoperto: è la differenza (di potenziale, potremmo dire noi oggi), il motore che fa girare il mondo, l’energia che permette a ciò che stava giù di salire su e viceversa, agli ultimi di farsi primi, in incessanti moti da destra a sinistra, ascese e cadute, e che dà ragione del particolarissimo naturalismo positivista di Strindberg. La chiave per capire il mondo, sembra dirci l’Autore, sta proprio nel comprendere il vorticoso movimento che, ben al di là e al di sopra delle nostre povere volontà, ci spinge verso il cielo azzurro e il paradiso e ci ricaccia indietro verso l’abisso dell’inferno: Piana costruisce perciò un mondo privo di ogni vera libertà e di autonomia, costretto dal metallo e da cieli artificiali in animalità represse (i topi, i porci, i cani, i canarini), dove ogni speranza (il viaggio in Svizzera, il futuro sul lago di Como) è vano chiacchiericcio che serve solo a stendere un velo pietoso e a differire, seppur di poco, la morte che incombe.
Se questo è il tema principale, di cui Piana dà conto allo spettatore, di altri, tuttavia notevoli, sembra non accorgersi: invece avrebbero potuto, se correttamente sviluppati e “tradotti”, aiutarci a entrare nel mondo di Julie e comprendere, accortamente attualizzato nelle sue motivazioni, il suo gesto finale, il darsi la morte che non è, come enunciato – e come purtroppo percepito – conseguenza della perdita d’un anacronistico onore, ma l’unico modo, invece, da parte della protagonista, di sottrarsi definitivamente al moto vorticoso d’un universo dominato dalla forza oscura e inconoscibile della differenza: un estremo – unico – gesto di libertà. Così la cucina, il luogo dove l’azione si svolge, risulta del tutto ormai inconoscibile come tale: se l’averla trasformata in un sotterraneo della storia, un non-luogo, cioè, dove può adeguatamente svolgersi una non-storia come questa, da un lato può aiutarci a comprendere alcuni dei simboli di cui è intrisa la vicenda – allo stesso tempo questa estrema metamorfosi ci fa perdere del tutto l’altra potente metafora, quella della cucina come luogo dove alchemicamente si produce il cibo, e quindi la vita, e che si trasforma, nella pièce, in oscuro spazio di morte, dove la cuoca Kristin, all’inizio della vicenda, prepara il veleno per far abortire la cagna Diana: aver reso irriconoscibile la cucina e aver spostato il dialogo tra Kristin e Jean a proposito della cagna verso la fine piuttosto che all’inizio ci fa perdere, secondo me, questo aggancio primario alla morte che poi continua per tutta la vicenda e che contribuisce a dare senso al sacrificio finale (per tacer del fatto che si perde ogni riferimento, nella resa finale di Piana, a Julie come Diana, dea vergine educata come un maschio che corre nella notte a caccia con la fida cagna, ma che ha perso – di nuovo il tema del degrado – la sua funzione di protettrice del parto per trasformarsi invece in colei che rifiuta la maternità e, addirittura, provoca l’aborto).
Se, poi, porre la porta oscura (quasi) al centro della scena consente al regista di sottolineare il tema del passaggio, e quindi del cambiamento, nulla è stato fatto, invece, per legare questo metamorfico transito alla notte di San Giovanni, al tempo, cioè, in cui si svolge la vicenda, significato che invece nell’adattamento sembra passare (quasi) inosservato e insignificante: la notte di San Giovanni è il solstizio d’estate, “porta degli uomini” secondo le tradizioni celtiche, contrapposta al solstizio d’inverno, “porta degli dei”. La vicenda della risoluzione di Julie e del suo gesto, del suo “passaggio” non poteva che avvenire se non attraverso questa “porta”, in questa precisa notte così carica di significati e di antiche credenze e superstizioni (si perde perfino il passaggio finale attraverso la porta di Julie, che si intuisce uccidersi fuori scena, dopo aver appunto oltrepassato la porta, ma che invece nell’adattamento di Piana si uccide in scena, coperta la faccia dell’incongruo drappo rosso della canarina decapitata, e con – addirittura – l’aiuto di Jean). E non sono forse l’acqua e il fuoco, così legati a Giovanni e alla sua predicazione (“Io vi battezzo con acqua; ma viene uno che è più forte di me, al quale io non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali: costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.”) null’altro che ennesima rappresentazione simbolica delle differenze di genere? Ancora, potremmo chiederci – dovremmo chiederci – che fine ha fatto il Conte e i suoi stivali: nell’intento dell’Autore il Conte incombe con la sua non-presenza per tutto il tempo della rappresentazione, vera personificazione deificata della forza della differenza che regola il mondo. Il Conte, primo personaggio a comparire (con apparente incongruità) nella dramatis personae dell’opera, pur senza apparire mai in scena, è il vero protagonista, convitato di pietra che sta a La signorina Julie come Wotan al Götterdämmerung, così come i suoi stivali stanno ai due corvi che volano dal Reno al Walhalla. Non si dimentichino i potenti legami tra la mitologia nordica e tutta l’opera strindberghiana, i continui riferimenti al mito norreno, e poco ci vuole, in fondo, per intravvedere nelle anguste mura della cucina la rupe di Brünnhilde, nella walkiria (“allevata come un uomo”) caduta la stessa Julie, in Katrin una ignara e fredda Guthrune; più problematica, se mai, l’identificazione di Jean con Siegfried, ma l’incertezza si supera non appena si pensi al Siegfried sotto influsso del filtro di Hagen: come Wotan (cieco ad un occhio) anche Jean e Julie vorrebbero intravvedere il futuro, ma non ci riescono perché corrotti, impossibilitati come sono a stabilire un contatto con lo junghiano “femminile sacro” che altro non è che il rapporto tra il proprio inconscio e la propria intuizione, centrati nella parte più materiale e sensuale del proprio essere; non rimane che il fuoco distruttore (da una parte) o il rasoio affilato (dall’altra): rinunciare del tutto (se si esclude qualche timido cenno nei dialoghi) all’incombenza del Conte e alla funzione “profetica” dei suoi stivali equivale a togliere gran parte di senso alla conclusione e a dar ragione al deluso spettatore che ieri sera in platea ha lasciato un po’ inappagato il Teatro Mercadante.