
[rating=4] Fino al 20 marzo va in scena al Teatro San Ferdinando di Napoli la prima assoluta di Pigmalione, testo dell’inglese George Bernand Shaw tradotto da Manlio Santelli e diretto da Benedetto Sicca, tra i collaboratori figurano anche gli allievi della Scuola del Teatro Stabile di Napoli al loro primo anno.
Il mito di Pigmalione, reso famoso, da un passo delle Metamorfosi di Ovidio narra dell’omonimo scultore di Cipro che, innamoratosi perdutamente della donna che aveva scolpito nell’avorio Galatea, chiese a Venere di renderla una creatura umana; la dea lo accontentò e Pigmalione sposò la sua creazione. Nell’uso comune poi il pigmalione è diventato colui che assume un ruolo di maestro nei confronti di una persona rozza e incolta plasmandone la personalità.
Nel dramma di Shaw il pigmalione è il professor Ermete Puoti (Paolo Serra), linguista, così esperto di dialetti e cadenze da poter individuare il luogo di provenienza di chiunque sentendo pronunciare appena qualche parola, e la giovane da plasmare è Luisa Diodato (Gaia Aprea), fioraia stracciona nata e cresciuta nei bassifondi napoletani.
Il professor Puoti imbattutosi per caso in Luisa scommette col suo amico, il colonnello Maffei (Fabio Cocifoglia), di riuscire in sei mesi a trasformare questa sguaiatissima cucciola di vajassa in una nobildonna al punto da poterla portare ad una serata di gala dell’alta società senza destare in nessuno il minimo sospetto.
I due maestri aiutati dalla domestica e dalla madre di Puoti (entrambi i ruoli interpretati da Antonella Stefanucci) riescono a realizzare quanto prefisso e Luisa viene scambiata addirittura per una principessa durante una festa al consolato, ma finito l’esperimento che ne sarà di lei?
L’opera mette in luce il problema della perdita dell’identità che inevitabilmente colpisce la donna che non sa riconoscersi in quei panni da gran signora e che sente di aver perso, insieme alla cadenza sguaiata e ai panni da stracciona, anche se stessa.
Fondamentale chiave di volta del testo è la figura del padre di Luisa (Giacinto Palmarini), l’uomo è riuscito ad ottenere grazie ad uno scherzo del Puoti una rendita fissa annua con cui puoi vivere nell’agio ma è proprio questo che lo mette in crisi: anche a lui i soldi e il cambiato stile di vita hanno provocato la sensazione di aver smarrito la propria naturalezza e la propria leggerezza; prima era uno straccione che poteva guardare il mondo dal basso, essere invisibile quando lo voleva e comparire se ne aveva voglia, ma ora da borghese tutti lo notano e cercano di appropriarsi di un pezzo della sua ricchezza.
In mezzo a questi vinti ci si aspetterebbe che almeno il professor Puoti risulti vincitore ma nemmeno questo accade, la piccola fioraia l’ha coinvolto emotivamente più di quanto lui pensasse ma nonostante tutto non riesce a trattarla come una sua pari, neanche ora che l’ha resa lui stesso tale, e Luisa, che ormai non si prostra più ai suoi piedi chiamandolo “maestro”, non potendo avere il rispetto che merita non può che lasciarlo nella sua solitudine.
Gaia Aprea è bravissima a vestire i molteplici panni di Luisa riuscendo a incarnare alla perfezione il cambiamento che avviene man mano nella donna, Serra è così credibile nel suo ruolo da risultare odioso quanto il suo personaggio ma questo è di certo un merito, un po’ monocorde l’interpretazione della Stefanucci che potrebbe caratterizzare di più i suoi personaggi, mentre spicca per la sua performance Giacinto Palmarini, pulcinella savio del dramma.
L’intero spettacolo è accompagnato dalle note del giovane violinista Riccardo Zamuner, le quali, adattate perfettamente alle parti recitative, le esaltano e riempono di spessore senza mai sovrastarle.
I mobili trasparenti scelti da Maria Paola Di Francesco per la scenografia conferiscono leggerezza alla scena e si sposano bene con i costumi di Frédérick Denis e Laurence Hermant in cui domina il contrasto cromatico che assegna un colore ad ogni personaggio.