
[rating=3] La pianta dei piedi nudi si muove silenziosamente sul pavimento gelido, si flette, si piega, attutisce il peso, si stacca da terra per qualche istante. Il resto della pelle sta al di sotto della stoffa, avvolta nel pantalone e nella giacca svolazzante, oppure all’oscuro di un paio di lenti da sole. Quella più spessa delle mani cerca di non lasciar passare il calore che si disperderebbe dal corpo dell’uomo nel microfono che raccoglie per terra da una specie di piedistallo.
Lo spettacolo “La deriva” al Teatro delle Moline inizia nella penombra, con un flusso di pensieri, inarticolati e continui. Ispirato al romanzo “Il male oscuro” di Giuseppe Berto, non poteva che essere così. Questo libro infatti non ha quasi punteggiatura, procede nell’animo dell’autore come un flusso di coscienza, analizzando il rapporto con il padre, il complesso di edipo mai risolto, la successiva morte del genitore, il desiderio di gloria e tutti i sensi di colpa che ne derivano. Il lavoro di Maurizio Cardillo arriva dopo, a padre già morto e sensi di colpa già vivi e dilaganti. Il padre, personificato col semplice uso degli occhiali e del microfono, non ha il minimo interesse per il figlio, è morto e non può fare niente, praticamente solo dormire. Non che in vita lo abbia aiutato in modo più incisivo, anzi lo ha sempre schernito e denigrato: “a me non me ne fotte una minchia che sei diventato bravo…”. Il figlio resta in un limbo, non riesce a vedere la propria esistenza se non in funzione del defunto padre: lo scorge dovunque, anche durante il suo lavoro di attore lo personifica nei fantasmi di Shakespeare che interpreta.
Per uscire dalla depressione cerca lavoro presso un regista universalmente riconosciuto che gli affida una importante parte. Dalla quinta, “dove non c’è né attore né persona”, una sorta di patibolo, entra in scena per le prove e si trova su un palcoscenico deserto. Il silenzio del regista lo invita a scavare nel suo io, a rovistare nei suoi sensi di colpa, ad evocare suo padre e il male che gli ha fatto, oppure la sua “dolcezza dopo avermi schiaffeggiato”. “Quanto più mi spogliavo tanto più voleva che mi spogliassi”. Il percorso destrutturato delle parole è seguito anche dai movimenti, dalle andature e dalle pose, oltre che dalle luci. Tutta questa tensione porta alla depressione, all’ipocondria, alla somatizzazione e all’attacco di panico finale, un fremito di morte e di indeterminazione che si impossessa del suo corpo fino a farlo desistere e fuggire prima di entrare realmente sul palcoscenico per lo spettacolo. “In quel sonno di morte non so più niente”. Parlando nel microfono come aveva fatto il padre morto prima di lui, ci mostra che è diventato come lui, impotente.
Maurizio Cardillo, che ha curato il testo e la regia insieme a Elena Bucci, scandisce il fiume di parole che però ha l’effetto di svuotare più che di riempire. Il pubblico percepisce questo mancamento, questa sensazione per niente bella di sentirsi senza controllo, smarriti.