
[rating=2] Un palcoscenico bianco di forma irregolare, coperto da tanti tasselli scuri, cubiformi. Così si presenta la scenografia dello spettacolo “io sono il vento” in prima assoluta nella sala Salmon del Teatro Arena del Sole di Bologna, con Giovanni Franzoni e Luca Lazzareschi diretti da Lukas Hemleb su testo del drammaturgo norvegese Jon Fosse. Due uomini in piedi nella nebbia, uno sempre sulla parte scura rialzata, l’altro sempre sotto, coi piedi sul bianco. Si nota visivamente la contrapposizione bianco-nero, positivo-negativo che si trova anche nelle frasi dei due, “è successo quello che avevi paura che succedesse”, “la vita non è poi così male no?!”, “non volevo”, “l’hai fatto”, “non ci sono più”.
Le frasi si spezzano, le parole “pesano” e perdono il loro significato, “non riesco a pronunciarle tanto sono pesanti”. L’uomo ha un malessere insormontabile, non riceve stimoli interessanti, tutto sembra insipido e indifferente, “forse non ci sono molti posti dove andare ma si deve pur stare da qualche parte”, “non mi piace non essere niente”. L’uomo è su una barca in mezzo al mare, la vita è un viaggio diretto verso alcune “baie” senza mai approdarvi davvero, si raggiungono, si getta l’ancora e si salpa di nuovo, un’esistenza senza senso rosicchiata dalle abitudini, dal lavoro e dalla quotidianità.
“A te piace che ci sia soltanto silenzio?”, “tutto è silenzio la”. La morte aleggia fin da subito su entrambi, in special modo sul “capitano della barca” che invita l’altro a salire e lo comanda come un mozzo mentre sprofondano nel grigiore “come la nebbia, come un muro di cemento”. “Il cielo è sereno, il tempo è buono”, ma regna il timore, la diffidenza, la paura. Durante il dialogo, le scatole di plastica vengono assemblate a formare un cubo, sempre rimanendoci con i piedi sopra. La barca si trasforma così, tassello dopo tassello, nella loro casa, dove cucinano, bevono e poi salpano di nuovo verso scogli grigi, “non cresce niente qui, ci sono solo sassi grigi”.
L’uomo che originariamente non era sulla barca, fa domande ripetitive e talvolta puerili, forse è un bambino che viene fatto salire sulla nave della vita? Sono padre e figlio? Il mare sicuramente rappresenta il pericolo e la morte, “se tu fossi nell’acqua non ci metteresti molto a morire di freddo”, “appena qualche passo più in là e non sei più”. Si sente un tonfo nell’acqua e loro continuano a parlare, le frasi si ricollegano a quelle iniziali, sembra non esserci una rilevanza cronologica, il suicidio potrebbe essere stato all’inizio e tutto ciò che vediamo essere una ricostruzione di uno dei due uomini. Il superstite cerca in ogni modo di aiutare il suo compagno, resta solo su una barca che non sa governare, alla deriva; il suo amico è accanto a lui e gli dice “me ne sono andato”, insieme rimontano una parete enorme che potrebbe anche essere una barca vista da sotto. Il superstite punta verso il faro, la sua salvezza in questo “mare nero e cielo nero”.
“Dimmi perchè l’hai fatto?”, “ero così pesante…”
La scenografia e la regia sono i punti deboli dello spettacolo: le numerose scatole, impilate a creare pareti e ambienti, stonano con la destrutturazione del testo, le cui pause e silenzi demoliscono piuttosto che innalzare muri. Come mai i due restano sempre sopra le scatole e, quando queste finiscono, cadono per terra ma i dialoghi restano invariati? Che cosa rappresenta la parete finale, costruita anche dalla persona finita in mare? Sembra che la regia abbia puntato su queste scatole, di sicuro impatto visivo, ma alla lunga ridondanti e fuorvianti, aggiungendo significati e dubbi non presenti nel testo. Si introduce implicitamente un “obiettivo geometrico”, cioè risulta prevedibile montare cubi e colonne in un certa configurazione, senza contare che il testo non da nessun obiettivo, nessun riparo all’uomo, solo una barca in balia delle onde.
I due attori sono bravi a restare neutri, sebbene con qualche sbavatura, specialmente nel monologo finale, con tinte un po’ troppo drammatiche per questo testo ruvido e impenetrabile. Uno spettacolo che non cerca il pubblico, non lo vuole trascinare, lo bagna soltanto con la gelida acqua del mare per risvegliarlo dalla quotidianità che lo inghiotte.