Intervista a Francesca Merli

A tu per tu con la regista, drammaturga e formatrice teatrale attualmente al Teatro Franco Parenti con “In Stato di Grazia”, uno spettacolo-inchiesta che mette in scena bambini e adolescenti con e senza disabilità.

Francesca Merli
Francesca Merli

Abbiamo intervistato Francesca Merli, regista, drammaturga e formatrice teatrale attualmente al Teatro Franco Parenti con “In Stato di Grazia”, uno spettacolo-inchiesta che mette in scena bambini e adolescenti con e senza disabilità. Attraverso le loro biografie e testimonianze, vengono esplorati conflitti, paure e limiti nel percorso di crescita.

Perché la scelta di questo titolo? A cosa allude?

“In stato di grazia” riassume – forse in maniera un po’ poetica – il tentativo di trovare un nuovo modo di stare al mondo. Ogni sera, sul palco, cerchiamo di creare un equilibrio delicatissimo, uno stato straordinario in cui far convivere bambini iperattivi e bambini autistici o con la sindrome di Down. Si tratta però di una stabilità precaria, che potrebbe crollare da un momento all’altro – e credo che questo il pubblico lo percepisca.

Qual è lo scopo socio-politico di questa operazione?

Sebbene l’inclusione sia un tema scottante, in fin dei conti le persone affette da disabilità rimangono sempre relegate ai lati della società, nascoste, dimenticate. Attraversare le complesse vite di questi ragazzi permette allora di aprire gli occhi, di informare e sensibilizzare su questo delicato argomento.

Hai definito questo spettacolo come “teatro inchiesta”. Cosa vuol dire?

Ormai da un paio d’anni mi occupo di un teatro di ricerca che definisco «teatro documentario» o «teatro d’inchiesta». È un’impostazione di lavoro che esiste già da decenni, tanto a teatro quanto nel cinema – penso a Bellocchio o Pasolini. Ciò che mi interessa è uscire dalle mura del teatro e interpellare la comunità. Per lo spettacolo “La banca dei sogni”, ad esempio, ho interrogato la cittadinanza milanese sui propri sogni notturni: ho intervistato senzatetto, persone cieche, donne che hanno subito violenza e ne ho tratto una radiografia socio-politica.

In Stato di Grazia
In Stato di Grazia

In che modo il processo di scrittura drammaturgica si ‘ri-configura’ attraverso i materiali vivi di partenza?

Nel caso di “In Stato di Grazia”, il processo creativo è stato sviluppato a partire da interviste fatte a bambini (con e senza disabilità) e ai loro genitori. Dalle loro testimonianze sono emerse storie complesse, di gravidanze difficili, adozioni, bimbi prematuri. Per riunire queste voci è subentrato poi il lavoro a tavolino che ha dato forma allo spettacolo. Il risultato è un puzzle variopinto che attraversa diversi temi della vita di questi ragazzi: l’esperienza scolastica, gli istinti sessuali, l’accettazione da parte dei genitori.

In che modo e a che condizioni è possibile portare il reale in teatro?

Quando il reale viene filtrato dalla “grande bugia” dello spettacolo, si tratta comunque di un’operazione di fiction. D’altronde, persino un documentario è sempre il punto di vista del documentarista. Bisogna trovare un compromesso tra necessità artistiche e istanze del reale. Questo conflitto può anche generare crisi di coscienza che portano l’artista a interrogarsi sulla legittimità del suo operato. Io cerco sempre di adattare il più possibile il mio linguaggio e lasciare spazio alla voce autentica di queste storie, a costo di censurare il mio io artistico.

Milano in questi ultimi mesi sta sperimentando varie esperienze di teatro partecipato: da “Eleusi” di Davide Enia a “El Nost Milan” di Serena Sinigaglia. Tutte operazioni artistiche che richiamano la cittadinanza. Secondo te, cosa spinge questo bisogno?

Nei periodi di crisi le arti hanno sempre avuto la tendenza a uscire dai propri edifici e andare in cerca della comunità. Penso agli anni ‘70, quando il teatro si trasferiva in fabbriche e piazze. È insieme una provocazione e un atto politico. E nel suo piccolo, anche il mio lavoro vuole essere entrambe le cose.

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