Imitation of Life. Miniatura della vita, scala 1:1

Uno spettacolo complesso e ricco di aperture sul presente, per la regia di Kornél Mundruczó in scena all'Arena del Sole di Bologna nell'ambito di Vie Festival.

Imitation of life foto di Marcell Rév

Imitation of Life. La vita in una scatola. La scatola è un appartamento. Oppure, l’appartamento è una scatola: un quadrilatero claustrofobico. L’appartamento è al centro della narrazione, coincide con lo spazio scenico. Lo spazio extra scenico, occupato da trame parallele e tangenti quella principale, è suggerito dal video, medium di cui si fa largo uso nello spettacolo.

È sul video che si apre il racconto. Una donna non più giovane è inquadrata in primo piano. Il punto di vista del pubblico coincide con quello della videocamera che la riprende. La donna parla con un ufficiale giudiziario che deve sfrattarla dall’appartamento in cui vive, a Budapest.

Siamo di fronte a uno spettacolo che, intorno a una drammaturgia molto forte e coesa, mette in campo l’utilizzo dello strumento multimediale sia come mezzo di connessione narrativa fra diversi piani spazio-temporali, sia come dispositivo che permette di avvicinare al personaggio il punto di vista dello spettatore.

Il primo piano filmico di Lili Monori, attrice protagonista di un’intensa e iperrealistica interpretazione nella prima parte della narrazione, colma la distanza che intercorre fra i praticabili e la platea e permette di apprezzare la forte costruzione psicologica del personaggio scolpita sul suo volto.

L’opposizione decisa della donna diviene il pretesto per far sì che lei racconti all’intruso nella propria casa la storia della sua vita, una vita ai margini, segnata dalle difficoltà. Ecco emergere le discriminazioni e le violenze istituzionalizzate subite fin da giovane in quanto Rom, il matrimonio e la nascita di un figlio, una famiglia costretta a vivere negli alloggi provvisori e fatiscenti concessi dai sussidi statali, fino all’appartamento in questione. C’è un figlio che non ha mai accettato le proprie origini, in perenne conflitto col padre; un figlio che ha da poco abbandonato la famiglia per rinnegare la propria appartenenza e darsi alla prostituzione. E c’è un marito morto pochi giorni prima dell’avvio della narrazione. La donna è dunque sola, provata dalla vita, malata di cuore. La sua vita è tutta in un appartamento, quello che si svela agli occhi del pubblico non appena la camera smette di riprendere la conversazione. Dopo pochi minuti di spettacolo sono già stati posti sul piatto diversi elementi, che riguardano la storia personale della protagonista, ma che si intrecciano con la situazione sociale e politica dell’Ungheria contemporanea: il problema della xenofobia e delle discriminazioni subite dalle minoranze, una politica di investimenti immobiliari che non tiene conto delle esigenze delle classi più povere, un sistema politico, economico e sociale volto a schiacciare i più deboli.

Ci sono già tutti gli ingredienti per il proseguo della storia. Lo sguardo si allarga dal primo piano della donna alla casa in scatola, riprodotta in maniera minuziosa, con tutta la decadenza e i segni del tempo e della miseria. Ecco l’appartamento, due stanze stracolme degli oggetti di una vita, che ora, tutto in una volta, la donna rischia di vedersi sottratti, una perdita che va a sommarsi a quella del marito e del figlio. Il corpo a corpo di parole fra l’inquilina e l’ufficiale giudiziario conosce una pausa obbligata quando la donna è colta da un malore. Nel tempo di attesa di un’ambulanza che non arriverà mai, complice un sistema che lascia gli ultimi sempre più indietro, tutto crolla e precipita, a segnare una cesura fra la prima e la seconda parte della rappresentazione. L’appartamento si ribalta su sé stesso, con un sorprendente effetto di rotazione a trecentosessanta gradi della scenografia. La casa si capovolge più volte, i mobili si staccano dal pavimento e volano via, i cassetti si spalancano lasciando cadere una miriade di oggetti, carte, elettrodomestici, che sono scaraventati ovunque, che si scagliano sul palcoscenico, cadono sulla platea, rimbalzano, fanno rumore. Tutto si infrange, tutto è precario. L’effetto è clamoroso, violento: l’iperrealtà dell’appartamento chiuso in una scatola, riprodotto nei minimi dettagli, crolla davanti agli occhi del pubblico, esplode e deborda pericolosamente, rompendo i confini della scena.

La casa devastata fa da trait d’union con la seconda parte dello spettacolo. Nell’appartamento arrivano i nuovi inquilini, una giovane donna che porta con sé il figlio, un ragazzino: i due sono quasi un doppio della coppia madre-figlio dei precedenti inquilini, con i quali, chiaramente, dovranno presto fare i conti. I cumuli di oggetti infranti tra i quali si muovono i personaggi che sistemano alla meno peggio tavoli e sedie sgangherati, raccontano il recente passato della casa e insieme alludono al destino a cui le fasce “deboli” della popolazione sembrano essere condannate. Il tutto è reso ancora più vivido dall’utilizzo di un’illuminazione diegetica e realistica integrata all’arredo dell’appartamento e utilizzata in maniera rigorosa e creativa.

Il racconto procede incalzante in un rincorrersi di intersezioni narrative tra la storia dei nuovi inquilini e quella del figlio della donna sfrattata e morta, un intreccio di vite sventurate e segnate dalla propria appartenenza sociale. L’atmosfera claustrofobica e asfissiante dell’angusto appartamento riflette il senso di oppressione e dipendenza della relazione fra la giovane madre e un anonimo “lui”, tratteggiata appena tramite uno scambio di messaggi sul cellulare. Un presente infelice e torbido, l’incapacità di comunicazione fra madre e figlio, un insieme di solitudini che non riescono a incontrarsi e trovare conforto l’una nell’altra: la vecchia madre, il figlio fuggito alle proprie origini, la giovane madre, il ragazzino.

Il finale potrebbe aprire all’ipotesi di un incontro solidale fra due destini affini, ma si risolve invece in un rimando alla recente cronaca nera, che ha il sapore amaro di una sconfitta. I titoli di coda riportano a Budapest, nel 2015, e alla realtà inesorabile di un sistema sociale e politico discriminatorio e marginalizzante che non lascia scampo a chi ne fa le spese.

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