
Finalmente. Dobbiamo ringraziare la fortuna, o il cambio di gusto o, chissà, forse la Musa sotto le spoglie del trepido Nicklausse, ma, in questi ultimi anni, Les Contes d’Hoffmann è sempre più rappresentato nei teatri d’opera della Penisola, e così anche qui a Napoli, al Teatro San Carlo, dove tutta la lunga storia del Massimo partenopeo la vede messa in scena solo due volte, nel 1960 e nel 1997 – in entrambi i casi diretta da Peter Maag, cui è dedicata, con Alfredo Kraus, l’edizione di quest’anno – arriva in questi giorni l’opera postuma di Jacques Offenbach. Strano destino, in verità, questo disamore tutto italiano per una partitura così di successo fuori dai confini italici che, invece, almeno in apparenza, almeno sulla carta, assommerebbe in sé diversi motivi che avrebbero potuto invece preconizzare una ben diversa sorte. Del resto, le stranezze, le ambiguità, le peripezie fanno parte, come si sa, della storia di quest’opera, geniale e, per molti versi, maledetta.
Per quella che diventerà la sua ultima opera, Offenbach si riprometteva di realizzare il sogno di affermarsi finalmente come compositore di opere romantiche, non più (solo) d’operette che, pure, gli avevano dato gloria, fama, successo: una rivalsa sulla storia, una sorta di indennizzo per il “piccolo Mozart degli Champs-Élysées”, che, con la caduta del secondo Impero, aveva perso insieme pubblico e soggetti delle sue operette, che nel brillante gossip della corte imperiale francese trovavano humus e ispirazione; la sua morte venne tuttavia prima che potesse metter fine alla partitura, lasciando incompiuta l’opera. E. T. A. Hoffmann, il romantico scrittore tedesco, che il musicista aveva tentato d’imbrigliare e imprigionare, come il Genio nella lampada, tramutando carne e sangue di poeta in personaggio teatrale, l’aveva alla fine consumato – una composizione lenta, faticosa, dubbiosa, inusitata per lui che per scrivere più rapidamente e cogliere l’attimo fuggente ai bei tempi si era fatto attrezzare una carrozza con uno scrittoio, quasi combattesse col tempo – come la gelida principessa Turandot consumerà Puccini, perso anche lui nel tentativo estremo d’esprimere ciò che, per ciascuno di loro in diverso modo e in diverso grado, appariva, alla fine, inesprimibile, irraggiungibile, nell’abito arcano e vuoto dell’inespresso.
Per la prima rappresentazione, nel febbraio 1881 all’Opéra-Comique, si affidò il compito di ultimarla, di mettere insieme gli appunti, di orchestrarla, di cavarne fuori, insomma, qualcosa di passabile da metter sulla scena, ad un altro compositore, Ernest Guiraud: la giovane moglie di Offenbach non ebbe cuore di andare a teatro e qualcuno, nella neve della gelida Parigi di quell’anno, le portò fino a casa le notizie d’un successo strepitoso, d’un pubblico entusiasta come lo era stato per le grandi operette del passato. iniziò così quello che poi è stato il travagliato destino di quest’opera eccelsa e dannata, correndo dietro agli innumerevoli rimpasti della partitura, ogni teatro adattandoli alle sue esigenze specifiche, così da generar nel tempo, oltre alle diverse versioni della stessa mano di Offenbach, molte altre varianti, più o meno pertinenti, più o meno fascinose o equilibrate. In mezzo l’incendio dell’Opéra-Comique che si porterà via la partitura della prima, le parti recitate sostituite, già nella versione Guiraud, con recitativi cantati, le romanze prese di sana pianta o adattate da altri lavori di Offenbach, le scene da altri autori, come il famoso sestetto, o l’aria di Dapertutto Scintille, diamant, composte probabilmente da Roul Gunsbourg, direttore dell’Opera di Montecarlo.
D’altra parte anche il soggetto di questa fantastica opera romantica – strana quanto enigmatica, e in questo risiede il suo persistente fascino – è anche aperto a molteplici interpretazioni, perché lo spettatore non sa mai con assoluta certezza se si trova di fronte alle illusioni e fantasie di Hoffmann o alla storia della sua vita, (con)fuse insieme in un sapiente gioco di rinvii, rimandi, allusioni, persistente obliquità. Il libretto, sulla base di un lavoro teatrale dallo stesso titolo, di Jules Barbier e Michel Carré, si ispira a tre storie di E. T. A. Hoffmann, l’autore tedesco più letto e più popolare in Francia nel XIX secolo, quasi leggendario prototipo dell’artista romantico, genio incompreso in vita, minato dall’alcol e dalla malattia. Facile allora il corto circuito, l’identificazione romantica tra l’Hoffmann autore, l’Hoffmann protagonista e l’Offenbach musicista che, nei fatti, muore nel dare alla luce la propria opera, in piena e totale (con)fusione tra Arte e Vita.
Lo stesso tema portante dell’opera porta con sé le stigmate d’un romanticismo esasperato fin de siecle, il fallimento ripetuto e metodico dell’amore per la donna, nelle tre incarnazioni dell’eterno femminino che si riverberano in tre diversi tipi di fede e di situazione esistenziale, in favore, invece, dell’amore per l’amore, l’amore per il proprio talento, che cresce, combatte, vince, infine, contro ogni avversità, favorito dalla Musa/Nicklausse. Così, se Olympia è rappresentazione dell’intelligenza e della mente, della fede positivista nella scienza, Antonia lo è del cuore e dell’arte, della musica e del teatro in particolare e Giulietta, per contro, delle ineludibili ragioni del corpo, dell’eros, della fisicità e dell’inganno dei sensi. E certo, anche gli altri personaggi suscitano molte domande, a partire dal daimon che si presenta nel corso dell’opera nella forma di quattro diversi personaggi, che sono verosimilmente sempre riconducibili ad un’unica entità malvagia identificata da un vero e proprio leitmotiv: Lindorf, Coppélius, Miracle, Dapertutto, come in Siamo uomini o caporali, viene interpretato dallo stesso personaggio, il “caporale” che, come nel famoso film di Mastrocinque, tiranneggia e perseguita Totò come questo onnipresente demone il povero Hoffmann.
Ma allora anche i ruoli delle quattro donne diverse di cui s’innamora il poeta, Olympia, Antonia, Giulietta e Stella, dovrebbero essere assegnati ad una singola cantante – a parte l’enorme diversità di tessitura vocale, è stato fatto anche recentemente, l’anno scorso, proprio con questo allestimento a Montecarlo, protagonista Olga Peretjat’ko – o a tre (o quattro) cantanti? E il personaggio di Nicklauss, musa, amico o donna ideale? O addirittura, come sembra in certi frangenti di questo allestimento, perfino angelo custode in combutta col diavolo? Sfide stimolanti per una messa in scena difficile: Jean-Louis Grinda, regista e direttore dell’Opera di Montecarlo, ha preferito non riaprire – apparentemente – questo vaso di Pandora, la sua messa in scena del 2010 non è certamente iconoclasta, ma ha il merito di essere intellegibile ed elegante. Diciamo subito che l’edizione che viene presentata è quella classica, ormai vetusta e superata, di Gunsbourg (omaggio che Grinda ha voluto probabilmente tributare al suo illustre predecessore), ma che non ha il pregio né della scientificità filologica della versione Keck o Kaye, né del fascinoso lirismo romantico di quella Oeser (personalmente da me preferita, che poi è quella pubblicata sul libretto a cura del San Carlo, diversa da quella andata in scena). Ma, al di là di questo, la regia di Grinda si fa notare per alcune buone idee, che si trasformano però in (solo) buone intenzioni, e la strada per l’inferno è lastricata, come si sa, da buone intenzioni.
È un’ottima idea quella del teatro nel teatro, un po’ abusata, ultimamente, ma bisogna ammettere che con Hoffmann si sposa a meraviglia. La taverne de Maître Luther è infatti situata alle spalle del palcoscenico di un teatro – è l’Opera di Montecarlo, potete scommetterci – di cui intravediamo a tratti, visti appunto dal proscenio, i palchi, le luci della ribalta, e sulle cui tavole assistiamo, anche, alternativamente, all’esibizione di Stella, com’è naturale, ma pure della madre d’Antonia; l’idea metateatrale viene portata avanti anche dalle grandi tende – sipari, in tutta evidenza – che costituiscono le mura stesse della taverne, e poi la casa di Antonia e quella di Olympia; alcuni studenti compagni di bevute di Hoffman e camerieri sono poi seduti sul lati del palcoscenico, accompagnando i vari quadri, facendo intendere, correttamente, che non ci si muove mai dalla taverne, gli episodi son per l’appunto contes d’Hoffmann, i personaggi, fantasmi evocati dai suoi ricordi deformati dalla lontananza, dal desiderio, dai fumi dell’alcol.
Così, non ci si meraviglia più di tanto se il Dr. Miracle, ad un certo punto, canta dalla barcaccia del secondo ordine, rompendo la quarta parete, se alcuni cambi di scena avvengono a vista, se gli attori parlano tra loro durante la rappresentazione: lo straniamento ci aiuta a ricordare che il teatro non è la vita, e che da esso dobbiamo prender le distanze. Buona idea anche quella dei tre schermi opachi che, lucernario della taverne, diventano paravento dietro cui si cela l’automa Olympia prima della sua trionfale epifania, il pianoforte di Antonia, lo specchio di Giulietta che rivelerà ad Hoffmann la perdita del riflesso. Buone idee: ma il teatro che s’intravede in fondo al palcoscenico non è in fondo, speculare rispetto a noi, non ci intravediamo forse anche noi, come in uno specchio, al di là della terra di mezzo della taverne? La buona idea di Grinda non si definisce, invece, mai, non decolla, rimane puro espediente scenico, mai pienamente riempito di significato. Ci è parso, poi, per contro, non rispondente alle intenzioni dell’Autore – per quanto rimaneggiamenti e macelleria artistica varia ci consenta di comprenderlo – o, comunque, non giustificato né dal testo né dalla musica, la “strana alleanza” tra Lindorf e Nicklausse per far emergere il talento di Hoffmann, preservandolo dalle tentazioni delle femmes. In tal modo, da un lato la caratterizzazione di Lindorf, nelle sue varie incarnazioni, punta decisamente al diabolico, più che all’eterno cialtronesco, rodomontesco, prevaricatore, di questo personaggio (accentuato da certi non previsti “tocchi di magia” soprattutto nell’atto di Antonia), dall’altro, e per contrasto, Nicklausse assume sempre più le caratteristiche ancor più grottesche di angelo custode, più che di musa: è francamente pericoloso e vivamente sconsigliato mettere in scena angeli e diavoli, a meno d’esser Lubitsch, e non mi pare d’averlo visto in giro ieri sera.
E poi l’essenzialità della scena di Laurent Castaingt, così incredibilmente semplice e dimessa contrasta potentemente con l’esuberanza, invece, e la ricchezza dei costumi di Davide Belougu, non solo nell’episodio di Giulietta, dove è l’estrosità è d’obbligo, risultandone, alla fine, per antinomia, ancor più accentuata la povertà scenografica: l’ambientazione Belle Époque non è di poco momento, per la rappresentazione dell’opera, ne costituisce anzi uno dei principali motivi che la innervano, se si vuol tralasciare bisogna farlo con coerenza e consequenzialità, invece tutto è molto disomogeneo, ci si muove agitando, come garrule bandiere, ottime idee alternate ad altre modeste o controproducenti o trasandate. Esempi ce ne sono moltissimi, si veda, nell’episodio di Monaco, la vestaglia d’Antonia, utilizzata come suo avatar, prima tra le braccia del Dr. Miracle, poi “seduta” sulla sedia, ha una forza scenica notevole, ma il tutto viene rovinato dalla visione prima della tomba, poi della stessa mère d’Antonia in scena: meglio senz’altro, più raggelante, meno innocentemente bimbesco, come previsto dal libretto, il grand portrait acciocché au mur a grandezza naturale che si anima con la voce fuori scena; o, ancora, nel finale della scena veneziana, i valletti mascherati, sul fondo, che ritirano il mare azzurro della “laguna” e ci si ritrova, come per incanto, ancora alla taverne, in cui però l’effetto scenico è turbato dal buio nulla in cui si svolge, una notte ormai illune e senza stelle che, certo, non aiuta l’emozione.
E l’emozione, dobbiamo dirlo, latita pure nell’interpretazione del gran Maestro Pinchas Steinberg, che continueremo a considerare un eccelso direttore, pur se ieri sera non ci ha fatto sognare, negandoci troppo spesso il bene dell’afflato drammatico e lirico; d’altra parte egli è un grande interprete sinfonico, più che lirico, e forse non si è trovato a suo agio con la musica piacevolissima e forse eccessivamente parisienne del buon Hoffmann, sta di fatto che l’orchestra non ha sottolineato abbastanza certi passaggi, certi improvvisi trasalimenti, certe impennate liriche e drammatiche, pur nella costante, imperitura ironia di fondo, che sono il vero tesoro di questa bellissima partitura. Peccato, sarà per un’altra volta, sperando che non ci vogliano altri trent’anni, da segnalare comunque la perfetta prudenza con cui il Maestro Steinberg ha curato il rapporto tra buca e palcoscenico, sapendo trovare la giusta misura della voce dell’orchestra in confronto a quella degli interpreti. E, probabilmente, sarà proprio grazie ai cantanti che questa edizione dei Contes rimarrà negli annali del Teatro San Carlo: una compagine di tutte stelle, come è raro e sempre più difficile, per tanti motivi, mettere insieme.
Perfetto, allora, l’Hoffmann di John Osborn, forse il migliore, sia dal punto di vista musicale, sia dal punto di vista interpretativo, che, probabilmente, possa affrontare questa parte in questo particolare momento: se la voce manca un po’ di magia, essa si dimostra tuttavia in ogni frangente solidissima al di là di ogni ragionevole dubbio, reggendo con sicurezza la scena per tutta la notevole lunghezza dell’opera, anzi paradossalmente migliorando nel finale, gli acuti sempre perfetti, robusti, eroici; d’altro canto il tenore statunitense è anche ottimo attore, per cui non gigioneggia sulla scena, sa sempre dove mettere le mani, è sempre credibile anche quando, come in questo caso, è costretto a correre sul filo impervio dell’incredibilità. A Osborn è perfetto contraltare l’Olympia esemplare di Maria Grazia Schiavo, sulla cui voce abbiamo già detto tanto in altre occasioni ma che qui, in questa parte così terribilmente impervia, in questa prova dall’iperbolicità ripida e sdrucciolevole e volutamente asperrima della bambola meccanica, riesce a superare se stessa, meritando lunghissimi applausi alla fine della sua performance; d’altra parte, è stato sempre così: La chanson d’Olympia è un banco di prova duro e apparentemente inaccessibile, che si supera solo in due casi, o perché si è un automate o perché si è un grande soprano, Maria Grazia Schiavo non è, in tutta evidenza, un automate.
E così pure dovrà annoverare tra le sue migliori prove questa Antonia, così appassionata e triste, Nino Machaidze, il cui inciso d’esordio Elle a fui, la tourterelle, situata dopo il rococò astratto e stilizzato dell’aria di Olympia risulta d’apparente, disarmante semplicità, ma – e qui, evidentemente, è situato il quid della grande interpretazione – ciò che indica l’espressione è di tutt’altro segno, non riferendosi all’ingenuità e alla purezza cui parole e linea di canto farebbero pensare, ma, invece, all’ambiguità del sentimento, perché il ricordo di Antonia, cantando una canzone scritta dall’amato, si coagula in “citazione artistica”, diventa arte nel suo più pieno significato etimologico, di “artificio”, che toglie l’intero episodio dall’equivoco d’esser costruito come una specie di strampalato dramma borghese che si tinge di noir alla fine, ma che invece illustra alla perfezione il perdersi per l’arte, per l’artificio scenico, cui il soprano georgiano sa dare, forse perché il personaggio è così in risonanza con la sua stessa vocazione artistica, credibilità e un che d’inquieto turbamento che, crediamo, sia esattamente ciò che si richiede ad Antonia. La Giulietta ha la voce dal bel colore di Josè Maria Lo Monaco, ben impostata e molto elegante; tuttavia la sua interpretazione, sostanzialmente corretta, non convince – e non seduce – fino in fondo, nonostante non sbagli una nota o un’intonazione, probabilmente è solo mancanza d’esperienza.
A chi, invece, questa non manca, è Alex Esposito: nonostante le riserve sul personaggio, che riguardano la regia, di cui abbiamo detto prima, il baritono bergamasco riesce ad infondere ai vari “caporali” che interpreta una convincente cattiveria, corredata di tanto in tanto di sonore risate, sempre di una linea di canto correttissima ed elegantissima, e cercando, nonostante sia costretto ad indossare sempre la medesima marsina nera, di caratterizzare al meglio i quattro nemici del protagonista, dal superbo Lindorf che con l’inganno, intercettando la lettera rivolta ad Hoffmann gli soffierà Stella, all’ottico Coppélius, spacciatore di realtà surrogate – che a me personalmente ha sempre ricordato l’Ottico di Spoon River di Faber – al Dr. Miracle, sorta di Mabuse in sedicesimo, allo stregonesco Dapertutto, novello Cagliostro che colleziona illusioni, riflessi, ombre per uso personale, quattro tipologie di personaggi, in fondo, non lontanissimi dalla nostra contemporaneità, pur senza invocare il demonio. Perfetta, ultima ma non ultima, Annalisa Stroppa nei panni maschili di Nicklausse – non le vengono concessi quelli della Musa – che affronta la parte con voce dal colore chiaro e perfetta dizione: queste doti, unite a non comuni capacità interpretative, rendono credibilissimo il personaggio, sempre, invece, a metà strada tra realtà e surrealtà, verità e fantasia e lei riesce perfettamente a giocare in questo ruolo fin quasi a riuscire a far confondere la sua bombetta con quella d’un tenero, irresistibile, commovente Charlot, perennemente, la sua figuretta, sul punto di correre, scattare, proteggere il “suo” poeta, sapienza antica in eterna giovinezza. L’ultima parola è per il Coro, diretto da Gea Garatti Ansini, che pure esce vincente da questa prova, e Jusqu’au matin remplis mon verre!, con tutta la sua allegria malinconica si erge a vera icona di quest’opera così bella e così vera.