Il gioco serio di ragazzi un pò cresciuti: Dipartita finale

[rating=3] Dipartita finale è una piacevole burla, una breve passeggiata nei meandri dell’esistenza. Quattro attori “consumati”, non più giovani ma non per questo meno accattivanti, giocano a filosofeggiare con un linguaggio senza filtri, come nella migliore tradizione toscana. Il pubblico reagisce positivamente. Si percepisce nell’aria del teatro Manzoni (Pistoia) la voglia di ridere, accantonare per un attimo i problemi quotidiani affidandosi ai comici, i pochi che riescono ancora ad alleggerire la vita. Ci si fa cullare da uno spettacolo la cui forza di gravità funziona bene, ma sa perdersi all’improvviso, come una navicella nello spazio.

“Ho sognato gli alberi stanotte”, dice uno dei personaggi, “alberi che camminano e hanno ancora le foglie”. Poi, sbirciando da una finestra, descrive il paesaggio fuori: “Il sole sta per inghiottirci, la terra sembra una crostata”.
Così inizia Dipartita finale, con una scenografia un pò post-atomica, un pò post-apocalittica, un pò dimora di tre vagabondi che ancora hanno voglia di scherzare. I dialoghi tra questi strambi personaggi sembrano mancare di un senso e una logica apparente, ma si rivelano omogenei nella forma e nello stile. Le domande che trapelano sono scottanti, banali, tuttavia nascoste da qualche parte nel nostro inconscio. Perché siamo venuti al mondo? Cosa è successo un attimo prima del Big-Bang? Se la risposta non esiste, gli scenari si aprono infiniti.

Gianrico Tedeschi, Ugo Pagliai, Massimo Popolizio sono tre clochards – ultimi esemplari della razza umana mortale, estintasi con l’avvento di nuovi esseri immortali -. Si trovano su un altro pianeta? La scenografia “sgarrupata” dove si crogiolano nei loro assurdi pensieri è la capanna abbarbicata su un altro sistema solare? Non si riesce a scoprirlo e nemmeno importa più di tanto, presi come siamo dal gustoso scambio di battute tra i personaggi, con i loro fini controsensi e paradossi, che investono come una valanga e rilasciano un gradevole senso di smarrimento. Franco Branciaroli, autore e regista della pièce, veste i panni della Morte, in arrivo sul finale, venata di un umorismo napoletano irresistibile, popolano, allo stesso tempo aristocratico. Gianrico Tedeschi è la tenera controparte di Ugo Pagliai, il primo riflessivo e ponderato, il secondo adagiato sui piaceri carnali; piagnucolone, perennemente affamato di vita. Entrambi hanno qualcosa in comune, si sentono morti da vivi e invidiano i morti veri, la loro eterna allegria. Massimo Popolizio li affianca con un monologo amareggiato – ma non per questo meno comico – sull’assurdità dello stare al mondo, la follia del vivere. Ma, sembra voler dire, non si può fare a meno dello sbrilluccicare meraviglioso della vita, i suoi saltimbanchi, le sue canzoni. Il finale, o la dipartita finale, ribalta lo scenario a-temporale, e riporta a terra.

Dipartita Finale_ ph.Alessandro Fabbrini

Il gioco attoriale di questi interpreti efficaci esplode in un’allegria satirica, pensierosa e astratta. L’atmosfera ricreata in scena ricollega a certi film di fantascienza, ma senza effetti speciali, solo con l’intenzione delle battute, l’energia degli attori. Interessante è la continua evocazione della favola senza fine del pianeta terra, un tocco forse religioso, sicuramente un’altitudine mentale.
L’intero cast è esilarante, e si concede totalmente nel suo ingenuo, serio discorrere di affari più grandi del genere umano. Dopo Dipartita finale gli interrogativi restano aperti ma anche questo, d’altronde, è uno degli scopi del teatro.

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