
[rating=3] Ascanio Celestini attende il pubblico all’ingresso del Teatro Nuovo di Napoli, parlotta, scherza, si presta alle fotografie come l’ho visto fare anni prima nello stesso teatro e come credo sia usanza consolidata.
E’ un modo per rifuggire dal concetto della quarta parete e per avvicinarsi a chi aspetta di sentire i suoi discorsi. Prima dell’inizio dello spettacolo in sala si sentono voci registrate e frammentate (Mao, Papa Francesco, Andreotti, Berlusconi) tutti leader che parlano ad una massa “senza che la massa possa rispondere”. Le luci sono ancora accese quando Celestini sale sul palco, con qualche raccomandazione di servizio trasmessa “dal vivo” parte il suo primo discorso. Si tratta di un lungo prologo che inizia dall’incapacità di spegnere il telefonino a teatro che causa disturbo ai vicini spettatori e agli attori, dal palco i volti di chi guarda lo schermo appaiono deformati, come rapiti da luci aliene. C’è spazio per l’attualità, vicende politiche e di cronaca trattate con acume e ironia e per il commento a caldo delle urla che a più riprese si sentono in sala. Sta infatti giocando il Napoli e ci troviamo nel ventre della città, tutti attorno a noi, fuori dal teatro stanno vedendo la partita.
Quasi senza rendercene conto le luci in sala si abbassano e si entra nel vivo della narrazione. Celestini ci racconta di una nazione dove imperversa una guerra civile perenne e dove piove sempre. Gli abitanti ormai parlano solo della pioggia, la guerra non fa notizia mentre la pioggia bagna tutti (ultimo baluardo della democrazia). Attraverso i monologhi di quattro condomini si offre un quadro atroce e cinico del Paese in cui vivono. C’è chi spara a caso dal balcone per instillare il fatalismo nella popolazione e chi ha la scocciatura di un cadavere sul pianerottolo che sporca il tappeto. L’attore romano conferma le sue doti affabulatorie portando in scena un mondo distopico, surreale, visionario, cinico. Emerge la banalità del male, la normale disumanità dei discorsi quotidiani, la scatola nera degli istinti selvaggi e dei desideri abbietti. Gli specchi che ci mette davanti riflettono distorsioni che muovono il riso perché ci fanno apparire brutti nella rappresentazione di una meschinità neanche troppo esasperata. In scena pochi elementi, luci, lampioni, abat-jour che Celestini manovra in scena scandendo i tempi della narrazione.
Infine fa la sua comparsa il Tiranno, il nuovo che avanza, cioè il vecchio che si rinnova. E’ la classe dominante, il potere che seduce e si impone (la repressione è civiltà), perché In fondo padroni e servi sono uguali e la Tirannia e la Democrazia sono la stessa cosa. A lui spetta la sintesi: i servi, i subalterni sono come i pesci piccoli che non riusciranno mai a mangiare i pesci grandi, possono solo per sopravvivere spulciare i resti tra le pinne e accontentarsi degli scarti.
La struttura drammaturgica è matematica e fa della ripetizione una cifra stilistica, la reiterazione “io sono di sinistra però…” si trasforma in uno scavo profondo nelle ipocrisie del quotidiano. Celestini è eccezionale nella capacità di trovare colori e intonazioni conservando una sorta di monotono che è un flusso rapido e costante di pensieri e stati di coscienza.
Discorsi alla Nazione non è uno spettacolo facile e per tutti, tant’è vero che la mia vicina di poltrona si è addormentata, ma è uno spettacolo degno di nota per chi a Teatro cerca il confronto e non la rassicurazione.
All’uscita apprendo che il Napoli ha vinto 4-1 in Germania, un’impresa memorabile che galvanizza i napoletani dopo un periodo di sconforto. Potrebbe sembrare fuori luogo, ma mi viene in mente che “panem et circenses” è motto antico che chi detiene il potere conosce e utilizza. E comunque forza Napoli.