
[rating=3] Può esser claustrofobica l’acqua, elemento mobile per eccellenza, fluido per antonomasia, liquido per definizione? Sembrerebbe, a prima vista, facile risponder di no, ché l’acqua per sua natura è vita, non può sopprimere in chiusa, solida, polverosa, asciutta solidità, voglie e desideri e l’incontrollato fluire dei pensieri; poi ti vengono in mente – con improvviso raccapriccio – gli annegati e l’aria improvvisamente ti manca: sì, l’acqua, nella sua inconsulta incontrollata instabilità riesce pure ad essere invece segno e simbolo di minacciosa opprimente solidità; così la casa di Giuseppe Acquaviva, già appartenuta ai genitori, è letteralmente fatta d’acqua, bottiglie d’acqua minerale d’annata impilate s’una sull’altra a formar muraglie liquide e solide insieme, senza curarsi del contrasto. Giuseppe però non vive lì, dove evidentemente più acuti sono i ricordi di un’infanzia supposta felice, nel cuore di Napoli e di Spaccanapoli, dorme invece sui treni vuoti alla Stazione Centrale: ci siamo fatti l’idea che ogni tanto, però, torni lì, nella casa del passato e dell’acqua, ad ascoltar sinfonie d’opera oppure addirittura a cantare e recitare insieme ai (supposti) fratelli il terz’atto della Tosca in quattro minuti e mezzo.
Questo è l’ambiente – l’humus, il presupposto, potremmo dire – dell’ultima pièce di Ruggero Cappuccio, Spaccanapoli Times, che apre anche qui al San Ferdinando la nuova stagione, sorta di Tempi moderni continuamente in bilico tra comicità chapliniana e tragicità pirandelliana, dramma scisso, potremmo definirlo, delirio schizofrenico per uomo solo che – forse, chissà – si fa in quattro per non uscir pazzo, visto che pazzo, in fondo, già lo è. Del resto, non sono forse, comico e tragico, nient’altro che ambivalenti facce della stessa medaglia, nulla più che punti di vista diversi della stessa realtà? Non sta forse, la definizione nel mondo, non già nel mondo stesso, ma nello sguardo di chi l’osserva? Così il nostro Giuseppe (Ruggero Cappuccio qui anche nell’insolita veste d’attore), scrittore che detta i suoi romanzi per telefono a Giosuè, per pubblicarli anonimi, praticando una sorta di “arte impersonale”, chiama a raccolta i suoi fratelli: Romualdo (ottimo Gianni Esposito perfettamente in parte), pittore che brucia le sue tele un attimo prima di completarle, Gabriella (strepitosa Gea Martire) che vive a Capodimonte una vita fatta di proiezioni e d’irrealtà e Gennara (Marina Sorrenti dal perfetto accento siculo) che invece torna dalla Sicilia, ormai vedova da anni, ma incapace di darsi il permesso di vivere un nuovo amore col suo spasimante, Norberto Boito (il timido Giulio Cancelli). Lo scopo della riunione nella mitica casa dei genitori è la visita cui i quattro – come ben si comprende non perfettamente a posto dal punto di vista mentale – dovranno sottoporsi da parte del medico dell’ASL, il dottor Lorenzi (un granitico e inflessibile Ciro Damiano), per conservare la pensione d’invalidità.
Su quest’esile trama Cappuccio costruisce una cattedrale di parole, riflessioni, metafore, contrasti, che si appoggiano a una solida e impressionante impalcatura fatta di “luoghi” e convenzioni teatrali, che spaziano dal teatro greco a Pirandello, da Shakespeare al teatro popolare napoletano e non, dal melodramma al cabaret, nell’appassionata descrizione di un uomo e della sua follia, incapace di riconoscere e far suoi i codici della modernità, che vive dunque di una semiotica aliena, incomprensibile ai più e inefficiente dal punto di vista sociale: inevitabilmente questo si traduce, da un lato, in una satira feroce della civiltà e dei suoi riti spesso astrusi e grotteschi, dall’altro, in una arguta riflessione sul significato della malattia mentale e del suo rapporto con la creatività artistica. Così, infinite metafore e apparenti contraddizioni infittiscono la scrittura, s’inseguono e si susseguono senza tregua, gioco infinito del rincorrersi continuo di finzione e realtà, apparenza e sostanza, relatività e verità: ogni personaggio ha un orologio con un’ora diversa, il soffitto fa acqua da sempre anche se fuori c’è il sole, i luoghi dell’infanzia sono completamente mutati per Gabriella ma del tutto identici per Gennara, fino ai significati scoperti dei cognomi, da quello di famiglia, Acquaviva, a quello dell’ultimo spasimante di Gennara, Boito, occasione per il grande inciso pucciniano di cui si è detto, in una ridda di ambivalenti alternanze che, se da un lato risultano alla fine piuttosto divertenti – molte le risate in sala – dall’altro giustificano e certificano, in qualche modo, la ricerca sulla follia condotta dall’autore.
Si noti, ancora, come ogni personaggio sia introdotto, alla sua prima entrata in scena, dal tema del destino della Sinfonia della verdiana Forza del destino, se pure interpretato elettronicamente in modo sempre diverso: i sei squilli di tromba militareschi e in qualche modo inquisitori precedono quel tema più volte ripetuto dalle quattro note strappate e in rapida successione fino all’ultima lunga e appoggiata, folate di vento invernale oppure rapido ma circospetto incedere furtivo d’un fuggitivo. Ecco, non credo sia casuale la scelta insistita di questo brano da parte dell’autore, noto anche per le sue frequentazioni liriche e per la grande cultura musicale: il concetto di “ironia tragica“, nel più ampio senso filosofico, alla base di un’opera per molti versi sperimentale e di crisi, come La forza del destino, e che l’unifica e dà senso alle tante incongruenze logiche e astruse che la caratterizzano, può ben svolgere anche qui la sua funzione, in un’opera per molti versi simile, o che perlomeno pone simili sfide formali e drammaturgiche. Si comprende meglio, in tal visione, il senso del finale, con quel muto distaccarsi dei fratelli e l’estraniarsi improvviso in un “fuori” reale e metaforico, lasciando a Giuseppe il monologo conclusivo, che getta una luce di diversa comprensione su tutta la messa in scena.