
[rating=3] Affascinante, sanguigna, nervosa, Arianna Scommegna “spintona” e non lascia solo il pubblico. Al Teatro Romano di Fiesole, le storie incrociate di un bambino e una bambina nati e cresciuti nella periferia milanese prendono forma nello spettacolo Potevo essere io, scritto da Renata Ciaravino. A metà tra l’autobiografia, il romanzo di formazione e la commedia all’italiana, la regia (di Serena Sinigaglia) si avvale di tecniche miste: proiezione di immagini metropolitane su uno sfondo sbilenco, canto, danza e pantomima che l’attrice, pluripremiata, sa manovrare e sfruttare, per rendere interattivo il suo rapporto col pubblico, la scena, i sentimenti.
D’altronde, l’impianto narrativo e spettacolare si muove sulla terraferma, non su sabbie mobili. Lo stile drammaturgico e della recitazione è per sua natura un richiamo, una voce al megafono che, anche non volendo, non si può fare a meno di udire. Imitazioni esasperate, personaggi da Bronx lombardo, teatrini meridionali in pieno Nord e lui, il protagonista – di cui la Scommegna mima le gesta -, l’anti-eroe, l’uomo qualunque: Giancarlo.
Da piccolo aspettava che qualcuno un giorno gli dicesse che fino a quel momento era stato tutto un brutto scherzo, che da lì in poi sarebbe iniziata la sua vera vita. Lui da piccolo dormiva dietro una tenda in corridoio, tanto sta bene così, dice la madre. Lui decise che da grande avrebbe parlato poco, “il giusto”.
Lui diventa attore di film hard, poi body guard di una pop-star balcanica, poi marito e padre frustrato. Lui va a schiantarsi contro un autobus con sopra la sua amica d’infanzia, la bambina forte che piange perché la chiamano terrona, che non riesce a piangere quando la madre scappa di casa; lei che diventa donna e finalmente aspetta un figlio, lei che avrebbe potuto essere chiunque, invece chissà perché è diventata quella che è.
Potevo essere io soffre di sbalzi d’umore, dal trash all’umorismo spietato, al dramma lieve. La direzione dello spettacolo è incerta: non si sa se si tratti di un faro satirico su un periodo storico o un discorso variopinto – come i gessetti sparsi in scena – sulla vertigine mentale di trasformarsi in tanti Io diversi. La porzione d’intrattenimento è imponente e salvifica la pièce, grazie anche all’attrice, che amplifica il suo accento lombardo per creare e distruggere una galleria di personaggi borderline e ad alto contenuto ironico. La Milano da bere è stata prosciugata tutta: qui resta la Milano degli strip-club e degli autogrill, della droga in cortile e delle speranze plastificate e bio-degradabili. Mentre una nuova vita, una nuova generazione si forma nel corpo della protagonista, simbolo di un auto-rinnovamento sempre più vicino.