
[rating=4] In pieno Nuovo Millennio c’è ancora chi è capace di innovare il teatro. Stiamo parlando di Familie Flöz, l’ormai storico gruppo artistico berlinese famoso per andare in scena con maschere enormi e grottesche. Ma Familie Flöz è molto di più di questo. Hotel Paradiso non è che l’ultimo magistrale tassello di un percorso all’insegna del potere della maschera e dell’attore, nato nel 1994 quando Hajo Schuler e Markus Michalowski proposero a un piccolo gruppo di studenti di recitazione e di mimo della Folkwang-Hochschule di Essen (frequentata anche da una grande firma del teatro contemporaneo come Pina Bausch) un progetto folle e ambizioso. L’intento era quello di combinare diverse forme d’arte scenica (e non) per aprire nuovi orizzonti teatrali. Ogni attore è autore del suo personaggio e scrive con il corpo la scena. La luce e i suoni, compresa la musica, fanno tutto il resto.
Non proprio commedia, non proprio giallo. L’umorismo è forte e abbandonante, certo, ma si percepisce quasi in ogni istante un’angoscia di fondo che sottende all’intera vicenda. Ancor prima dei delitti che verranno snocciolati con assoluta disinvoltura allo spettatore, giocando sugli espedienti dell’iterazione gestuale e dell’imprevisto.
Un vero e proprio abisso nero tra le vette delle Alpi, che si stagliano lontane sulla destra della scena, macchiate di blu elettrico. L’Hotel Paradiso rappresenta una “litote teatrale”, perché ha le caratteristiche sceniche dell’inferno: posto in basso (il colpo d’occhio delle vette blu delle montagne ce lo suggerisce), cela anfratti e stanzini terribili (“l’ascensore” nel quale si nascondono cadaveri e dal quale escono fantasmi; la cucina-ammazzatoio) ed è il regno dell’anziana tiranna capo-famiglia che malmena senza ritegno i sudditi tutti, a loro volta vittime attive di un sistema di comunicazione interpersonale basato sulla violenza e sul conflitto fisico. Il timido e imbranato receptionist, il cuoco lento e sornione, la ragazza esibizionista e prepotente, la cameriera cleptomane e innamorata, per non parlare poi di tutta una serie di ospiti della pensione che arrivano uno dopo l’altro, sempre nuovi e senza soluzione di continuità. In mezzo amori, corrisposti e non, odi e rancori, delitti, rapine e occultamenti. Un panorama orribile, servito in salsa comica, parodistica, umoristica, grottesca.
La scenografia è plastica e volutamente posticcia, complessa e diversificata per livelli e illuminazione. La luce che irradia le varie porzioni di scena, infatti, a seconda del suo colore (e della musica di sottofondo) disegna spazi narrativi anche extra-scenici e addirittura extra-umani, se di umani si può parlare. Ne sono un esempio la discesa nella hall dell’avo ritratto nel quadro votivo in bella mostra nel centro della scena, in alto, e il balletto melanconico di un personaggio con coriandoli di neve che scendono dal soffitto dell’albergo (il paragone alla nevicata in casa all’incipit del film di Orson Welles Quarto Potere è d’obbligo). Entrambe le scene sono evidenziate da un cono di luce blu, che restringe lo spazio dell’azione “a occhio di bue”, e da una musica nostalgica, quasi solenne. Altro elemento fondamentale è la porta girevole d’ingresso, fonte proficua di facili equivoci e buffe scene a effetto, nonché di situazioni che sconfinano ed entrano di prepotenza nel tragico.
Soprattutto nella prima parte dello spettacolo i suoni di scena sono fondamentali: dal vento freddo e sibilante del palco ancora immerso nel buio si passa al canto mattutino degli uccellini e alle sonorità tipiche degli ambienti di montagna. In questo senso il suono disegna il tempo dello spettacolo, coadiuvato dalla luce che man mano aumenta di intensità e muta colore. Di pronta risposta i movimenti, i gesti e la prossemica degli attori disegnano lo spazio, confezionando una piéce che riesce a coinvolgere il pubblico utilizzando un linguaggio teatrale del tutto non-verbale. Qualcuno ha definito i mezzi attraverso cui si esprimono gli artisti di Familie Flöz “ante linguistici”, altri hanno parlato di “teatro muto” o semplicemente “fisico”, altri ancora di “parenti dei Muppet”. Ma probabilmente la forza comunicativa e prettamente scenica di questo talentuoso gruppo berlinese risiede nella chiarezza attanziale dei personaggi. Chiunque al di là della quarta parete – di continuo infranta da sguardi che dal palco piovono sugli spettatori, al modo dell’interpellazione nell’obiettivo della macchina da presa cinematografica – comprende la storyline di ogni personaggio basandosi su pochi istanti di mimica e di linguaggio del corpo. Una bravura tanto fisica quanto di scrittura, di pre-testo. Quasi un canovaccio da Commedia dell’Arte, che raccoglie un campionario di situazioni e trovate comiche e grottesche che avranno successo e fortuna soltanto se gli attori sapranno parlare col corpo, con la prossemica, con la maschera. Ed è qui che entra in gioco lo straniamento di Hotel Paradiso e in generale di tutte le prove di Familie Flöz. La maschera enorme, esagerata, oltre i limiti del grottesco rivela immediatamente la sua “oggettualità”, il suo essere caricatura di se stessa.
Artisti completi, al modo di quelli di musical (Triple ). Il canto e la recitazione, qui, sono però sostituiti dalla comunicazione attraverso il proprio corpo, che così diventa copione e testo di scena. Un’abilità che forse si avvicina di più alla sfera del mimo, ma che in ogni caso si avvale di un impianto scenico tradizionale, almeno in gran parte.
Viene fuori una tragicità senza retrogusti, ben mascherata (è il caso di dirlo) da una comicità alla costante ricerca dell’ammiccamento, del consenso. L’angoscia scotta appena l’animo dello spettatore, perché non ha nemmeno il tempo di bruciare dietro la risata e il contesto ridanciano. Per un nuovo “grado zero” della tragicità che sfonda le pareti del comico e vi ci si tuffa a piombo, senza filtri.
Ma l’animo sperimentatore di questo gruppo non finisce con il tempo dello spettacolo. A sipario (che non c’è) idealmente abbassato, dopo l’inchino c’è ancora tempo per godere di questi meravigliosi funamboli. Le maschere sono ancora ben saldate alle teste, anche se l’intreccio si è consumato. Poi le maschere cadono e si mostrano i volti dei quattro attori. Esatto, solo quattro. Per quanti personaggi, non si sa più. Si è perso il conto. A questo punto il palco si trasforma in camerino, con gli attori che si riposano seduti sugli arredi di scena. Per un teatro totale, prima, durante e dopo la rappresentazione. Il sipario non esiste.