
[rating=3] È un gioco complesso e tortuoso, a tratti francamente oscuro, quello che Mark Ravenhill conduce attraverso una storia e una geografia non sempre d’immediata lettura: il drammaturgo inglese, che fu già star, insieme a Sarah Kane, dei nuovi arrabbiati, tutto sommato dà l’impressione che l’ambizione – d’aver voluto affrontare e tradurre un gran feticcio culturale come il Candide aggiornandone, in qualche modo, i contenuti – abbia di gran lunga superato l’esito, piuttosto sconcertante. E, si badi, il disorientamento non deriva, certo, come magari si sarebbe augurato l’autore, da un moto d’indignazione o di sdegno, ma al contrario, da noia e vuoto. Ma andiamo con ordine.
Candide viene presentato qui a Napoli, al Teatro Mercadante, per la regia di Fabrizio Arcuri: il lavoro si articola in cinque atti – meglio, cinque scene – che inseguono due diverse storie (due scene per storia) precedendo parallele per poi intrecciarsi nell’ultima. Il primo filo narrativo è quello proprio di Candide, il secondo riguarda, invece, la storia di una strage – e delle sue conseguenze – che avviene nel nostro contemporaneo. Il primo quadro è ambientato nel 1755, come ci viene sottolineato dal cartello inalberato dagli attori: in un castello in Vestfalia, viene preparata una commedia per distrarre dallo spleen il giovane Candide: si rappresenta la storia della sua vita, e la commistione tra realtà e finzione teatrale diventa paradigma di uno degli assi portanti di tutta la pièce: il rapporto, cioè, tra verità e rappresentazione, tra essere e voler essere, tra riscontro dell’evidenza dei fatti e forzatura interpretativa che di quei fatti se ne fa. È questo poi, in definitiva, il centro della critica di Voltaire alle credenze religioso-superstiziose, da un lato, e della parolaia filosofia leibniziana (incarnata nel pedagogo Pangloss, Tuttolingua) che proclama esser questo “il migliore dei mondi possibili”, dall’altro: non esiste una superiore ragione che ordina le cose, che dà senso a ciò che avviene e che giustifica il male. Il terribile terremoto di Lisbona, con tutti i suoi morti e la distruzione apocalittica provocata dagli eventi, non può essere la punizione per i peccati commessi, né entrare a far parte di un superiore disegno, ma rientra semplicemente nel novero degli eventi naturali. Nella finzione metateatrale si rievoca anche l’incontro con Cunegonde, che segnerà Candide per sempre.
Il secondo quadro, nei nostri giorni – bella la scena (di Andrea Simonetti) che disegna l’hotel come una gabbia – racconta di una famiglia allargata riunita a festeggiare i diciott’anni di Sophie: la ragazza uccide tutti i suoi familiari, tra il disgusto per il loro comportamento egoista e solipsista e la rabbia per l’avvelenamento del mondo. Alla fine, però, anche Sophie verrà uccisa da un colpo partito dalla rivoltella mentre lotta con la madre Sarah, unica sopravvissuta. Certo, nelle intenzioni, credo che l’autore abbia voluto rappresentare, insieme, il malessere del vivere contemporaneo e il vuoto che spesso si nasconde dietro certi proclami e prese di posizione: intento lodevole, non fosse che il risultato è quello che appare, e quello che appare è piuttosto semplicistico e sbrigativo, oltre che del tutto privo di senso e, soprattutto, di credibilità drammaturgica. Il terzo quadro è in diretta continuità: Sarah, in analisi, viene contattata da un produttore: della sua vicenda, così profondamente segnata dal sangue e dall’odio, se ne farà una serie televisiva, naturalmente edulcorando, falsando e mistificando la verità. Nulla di nuovo sotto il sole, anche qui l’autore non ripete altro che troppo sbiadite banalità, condite anche dall’ovvietà dei personaggi, macchiette più che veri caratteri, dal produttore venale allo sceneggiatore presuntuoso e in odore di falsa genialità, alla terapeuta mistificatoria e dall’ego pregno d’irrisolto narcisismo. Nel quarto atto, forse il migliore, ritroviamo Candide nel paese di El Dorado: luogo tra utopia e distopia, promette la felicità dell’assenza di filosofia, religione, politica, autorità, economia, in cambio dell’anestesia e dell’atrofizzazione dell’umanità e delle passioni. Sarà a cavalcione di una pecora a reazione che Candide lascerà il paese quando apprende che può raggiungere la sua Cunegonde. L’ultimo passaggio è in un fosco futuro: un dottor Stranamore, genio dei geni (troppo scontato giocare sui supposti pericoli dell’ingegneria genetica, soprattutto da parte di chi non ne sa nulla e per un pubblico che ne sa ancor meno!), ultima incarnazione dell’odiato Pangloss, è riuscito a isolare (sintetizzare?) il gene dell’ottimismo, per cui a tutti i nuovi nati verrà imposto per legge. Ad una pubblica dimostrazione in un teatro (!) in cui vengono mostrate vere e proprie reliquie di Candide (Pangloss tiene Candide in animazione sospesa in una capsula di cristallo), interviene Sarah che si oppone decisamente a quel folle progetto e chiede di vedere Candide. Viene accontentata, e Candide stesso, tornato in sé dopo duecentosessant’anni, s’incontra finalmente con Cunegonde, ma naturalmente ella non è più la stessa: terribilmente invecchiata, avvolta nella bandiera europea, si lancia in un lungo, veemente e urlato monologo reclamando a gran voce il bacio d’un attonito Candide, che alla fine, vincendo il disgusto, cede alle insistenze; il sipario si chiude sul lapidario commento di Sarah: “Ottimismo: un sistema di crudeltà con un nome rassicurante”.
Dopo due ore e un quarto di spettacolo senza intervallo, cosa rimane allo spettatore inchiodato in platea, se non un senso fiacco e superficiale di vuoto? Certo, ripetere come un mantra, di fronte ad ogni genere d’avversità e sventure, morti ammazzati, sangue e odio, che questo è “il migliore dei mondi possibili”, fa pensare che l’autore, come Voltaire, sia contro un certo ottimismo sciocco e falsamente consolatorio. L’impressione è che, al di là di una mera espressione banalmente declamatoria e superficiale, nulla traccia rimanga della forza degli uomini che cambiano finalmente il mondo e le cose, nonostante le avversità, che è proprio del pensiero di Voltaire e degli illuministi: e, se mai non dovesse sembrar questa, la via d’uscita, ormai evidentemente datata e superata dai secoli e dagli eventi, cosa contrapporre al falso ottimismo delle masse perse nelle telenovelas, nel gossip, in false credenze nelle bufale prodotte dai social, nella fede in una vita artificiosa? Nulla. A parte il fatto che questa nostra invecchiata Europa (almeno vista di qui, non so dal Regno Unito) non guarda più avanti, non è persa in un ottimistico sogno impossibile, ma sembra invece preda inesorabile di rigurgiti antichi che la fanno sempre più ripiegar disperatamente su se stessa: a leggere certi articoli di giornale, certi blog, certi post, questo che viviamo nella nostra contemporaneità sembra essere piuttosto “il peggiore dei mondi possibili” (il che, si badi, è altrettanto sbagliato che affermare il contrario).
E tuttavia bisogna sottolineare che a volte i miracoli avvengono anche a teatro: la bravura degli artisti che l’hanno messo in scena è riuscita a far diventare questo lavoro povero, banale e tronfio, non solo passabile, ma a tratti perfino godibile. Certamente un plauso va al regista Fabrizio Arcuri – ha disegnato anche i costumi – che ha saputo sottolineare le cose migliori avendo cura di sorvolare su quelle risibili; merito anche delle bellissime scene di Andrea Simonetti – si veda, oltre la citata gabbia d’hotel del second’atto, anche gli oblò quadri del terzo, che descrivono un mondo dai ben ristretti orizzonti – ed efficaci anche gli inserti video di Luca Brinchi e Daniele Spanò. Tra gli attori, oltre a un sentito plauso a tutta la compagnia, mi sento d’esprimere il mio apprezzamento convinto ai quattro protagonisti Filippo Nigro, Lucia Mascino, Francesca Mazza e Matteo Angius che, incarnando volta a volta vari personaggi, han saputo donare vero spessore, da seri professionisti quali sono, a stinte larve che improvvisamente prendono carne e sangue e anima; una particolare menzione, infine, alle musiche eseguite al violino e con la voce da H.E.R., che riesce a dare a tutta l’indigesta pietanza un sapore ben diverso e decisamente più appetibile. Miracoli del teatro ben fatto.