
Il drappo scuro penzola, come impiccato, da un chiodo nel muro. Il grigiore circostante non fa altro che accentuare il suo colore nero, nascondendo i suoi ricami dorati. Ma in un istante la sua stoffa solca l’aria viziata della stanza, aleggia sopra una sdrucita poltrona di pelle e si stende sopra un tavolo. La toga del giudice Rudolf sta per essere stirata dalla mano abile di sua sorella, Vera. Così si apre lo spettacolo Prima della pensione ovvero cospiratori, prima assoluta all’Arena del Sole di Bologna, con Elena Bucci, Marco Sgrosso ed Elisabetta Vergani, su testo di Thomas Bernhard, per la regia della stessa coppia Bucci-Sgrosso.
Vera e Olga Höller sono sorelle e convivono nella vecchia casa di famiglia con il fratello Rudolf. Olga è sulla sedia a rotelle, Vera la accudisce. Fin qui niente di strano. Ma ben presto iniziamo a conoscere Vera, non tanto per il fiume di parole con cui ci inonda, quanto per bocca dell’astio che le riserva Olga. Le frecciatine di Olga partono dal profondo, vanno ad imbeversi in un odio atavico che qualche volta non può essere ulteriormente represso. Si respira mistero e paura di essere scoperti, come se vivessero in clandestinità, “siamo cospiratori”.
Il racconto non procede quasi mai in linea retta, è sempre frammentato in molti atti di pensiero che partono, si concludono per poi ricominciare altrove. Si scopre che Vera ha trovato una ragazza sordomuta per le pulizie domestiche, scegliendola perché “prima di venire qui era una nullità”, “è un bene che sia una sordomuta, insignificante”. Vera l’ha scelta, così come ha fatto “per le altre”, perché non può spifferare in giro cosa accade in quella casa e perché il carattere sottomesso di una persona disabile è facilmente manipolabile. Anche Olga è disabile e questo le viene fatto pesare a più riprese. L’ombra del defunto padre partecipa ai dialoghi, che in realtà sono lunghi monologhi, con modi di dire e aneddoti, le loro insicurezze sono causate anche dalla sua intransigenza e forza di carattere, che li ha schiacciati fin da piccoli. La mamma, morta suicida, “era fatta di un materiale troppo fragile” per poter reggere in quella casa, oppure “aveva previsto tutto”, come sentenzia Olga.
La “disgrazia” di Olga è diventata anche quella di Vera, che avrebbe potuto comprare un’altra casa, andare all’opera e al teatro, e in definitiva vivere una vita migliore. Ma per colpa della sorella non può fare niente, deve restare in quella casa, “perché altrimenti verrebbe accusata di lasciar sola la sorella paraplegica”. Tiene in pugno la sorella intimandole che “Rudolf vuole mandarti in un istituto”, le loro vite sono indissolubilmente legate. Il fratello sarà assente per tutto il primo atto, ma sarà sempre presente nei pensieri di Vera: “è un uomo malato” si fa sfuggire ad un certo punto, lamentandosi di lui con la sorella al fine di portarla dalla sua parte. Si scopre successivamente che c’è una relazione incestuosa fra loro, “per tenerlo qui”, in quella casa. Rudolf, ex comandante nazista, vicino alla pensione, festeggia tutti gli anni la ricorrenza del compleanno di Himler, il suo eroe. Vera lo asseconda in queste sue follie, proteggendolo come ha fatto per i dieci lunghi anni che il fratello ha trascorso in cantina per paura di rappresaglie antinaziste. Olga, di idee molto più liberali, è la meno manipolabile da parte di Vera, “lei se potesse andarsene ci denuncerebbe e ci rovinerebbe”, ma la sua condizione fisica trasforma l’impossibilità di agire in odio.
Il fratello spesso contraddice la versione di Vera, sia nei ricordi degli aneddoti del padre, sia quando afferma che “noi non l’abbiamo mai pensato neanche per un istante di metterti in un istituto”, rivolto ad Olga. Si intuisce solo allora che Vera si inventa tutto, crea una propria versione delle cose e lavora ai fianchi tutti quelli che le stanno vicino per manipolarli. Purtroppo non ottiene qualcosa in cambio, anche lei è infelice, imprigionata in una vita senza sbocchi e senza cambiamenti.
Quando poi il fratello andrà in pensione, avranno più tempo per stare insieme e per completare l’idilliaco quadretto familiare: “già mi vedo qui tutti e tre in questa stanza ad aspettare di crepare”.
Il testo di Bernhard è molto suggestivo ed introspettivo: non lascia niente al caso, ogni frammento ha sempre un posto preciso dove essere collocato, come in un mosaico. Le tematiche care all’autore, come ad esempio il nazismo, qui fanno soltanto da sfondo: prevalgono la solitudine e la costrizione dei personaggi nella loro misera vita, causata dalla loro interconnessione che non può essere interrotta, se non nel finale inaspettato, dove però non si svela cosa succederà dopo.
Elena Bucci deve senza dubbio affrontare un ruolo per niente semplice: Vera non si ferma mai, dà il tempo agli altri, passa dal faceto al profondo, salta da un ricordo alla realtà e ancora alla fantasia. La Bucci è brava ma non esprime al 100% tutte queste sfaccettature, non si gusta le battute fino in fondo e non si intravede il filo logico dei suoi pensieri fra una battuta e l’altra, la sua è una Vera molto “tecnica” e poco “vissuta”. Spero che questo difetto si affievolisca nelle prossime rappresentazioni, che faranno gustare all’attrice le tantissime tonalità di colore e i repentini cambi di umore di cui questo personaggio è capace. Buona prova per Elisabetta Vergani, specie nel “gioco senza la palla”, cioè mentre non dice la battuta ma riempie comunque quel tempo e quello spazio con intenzioni esaustive e chiare, senza strafare. Bravo anche Marco Sgrosso, in un ruolo però tutto sommato più semplice. Suggestivo l’impianto registico, con buone luci e bei cambi scena, forse resi più difficili dalla mancanza di sipario nella sala Salmon del teatro.