
Negli ultimi giorni della sua vita, nel giugno del 1904, Anton Čechov si trovava nella località termale di Badenweiler, in Germania, in compagnia della moglie, l’attrice Olga Knipper. Lo scrittore e drammaturgo russo soffriva da tempo di tubercolosi, la malattia aveva minato la sua salute per anni, e il viaggio in Germania era stato intrapreso per incontrare a Berlino un famoso clinico, il professor Karl Ewald, nella vana speranza che potesse guarirlo. L’esito della visita fu però negativo e i coniugi, nella speranza che il clima mite dell’estate tedesca potesse aiutare la sua malattia, si diressero a Badenweiler, città termale della Selva Nera.
All’inizio, infatti, ci fu un effettivo miglioramento, poi però Čechov, già molto debilitato, peggiorò rapidamente nel mese di luglio, accusando difficoltà respiratorie e affaticamento estremo. È in quei luoghi e quelle ore drammatiche che Raymond Carver ambienta L’incarico, ancora emozionato dalla lettura di una biografia di Čechov, mescolando fatti e invenzione, stati d’animo e umorismo, cercando di emulare il sottile stile dell’Autore, ingrandendo, come con lo zoom di una macchina da presa, particolari insignificanti fino a renderli protagonisti, di fatto scrivendo un racconto à la Čechov, in cui la metamorfosi dei personaggi in senso finemente allusivo si compie, sotto i nostri occhi, senza ricorrere all’eccezionalità di eclatanti mezzi espressivi, ma semplicemente andando a scovare l’humor all’interno della verità stessa del personaggio, il sorriso che, quasi con stupore, lui stesso scopre di ritrovare in sé.
Prova Luca Bargagna, con lo spettacolo in questi giorni al Teatro San Ferdinando di Napoli, di cui cura, oltre la regia, pure l’adattamento, a rendere sulla scena quel racconto, cercando la misura giusta tra realtà e trasfigurazione letteraria, tragedia e commedia, in un precario e arduo equilibrio che insieme strugge forma e sostanza, sogno e verità. Stando al racconto di Olga, nella notte tra il 1° e il 2 luglio 1904 (secondo il calendario giuliano, il 15 luglio per il calendario gregoriano), il medico tedesco chiamato al capezzale dello scrittore ordinò un bicchiere di champagne. Čechov, con un sorriso, avrebbe detto in tedesco: Ich sterbe (Sto morendo), bevendo il bicchiere con calma e poi sdraiandosi serenamente sul letto. Poco dopo spirò pacificamente, senza sofferenza apparente, accanto alla moglie.
Questi ultimi momenti, carichi di una malinconia quasi teatrale, sembrano usciti da una delle sue stesse opere: sottile ironia, scontrosa dignità e disadorna leggerezza di fronte alla fine, una situazione che molto ha in sé del teatro, nella raffinata finzione che sembra imitare la realtà pur rimanendo artificio creativo, senza mai scadere nella farlocca falsità.

E allora non poteva essere che un palcoscenico sul palcoscenico il teatro della più raffinata messinscena cechoviana – la morte di Čechov – e scusate l’eccessiva ridondanza che fa del dramma commedia, del vaudeville tragedia: ancora una volta la finzione teatrale si dimostra il mezzo più breve, più idoneo, più sincero per arrivare alla verità, che vive di incrociati paradossi, di esasperati e snervanti crucci catartici. La scena, che nel disegno di Angelo Linzalata trova senso e compiutezza, descrive minutamente una parte centrale – un rettangolo ben delimitato da quinte laterali e orizzontali – che rinvia di certo al boccascena, ai lati – nello spazio escuso dall’agire teatrale, non certo dal dramma – trova posto una poltrona, un telefono a parete, alcune applique che tanto somigliano alle luci in sala: un teatro vero e proprio, dunque, con tanto di palco e di platea dove il pubblico possa meditare, tentando un qualche improvvisato excursus nell’introspezione.
Non sono così nettamente divisi tra loro questi spazi, i personaggi si muovono all’interno di questo universo senza alcuna soluzione di continuità, entrando ed uscendo non rispettando alcuna regola prefissata dalla realtà e dalla finzione, dal presente di Badenweiler oberato dalla malattia e dai ricordi di un passato felice. Così, di volta in volta il piccolo palcoscenico si illumina delle fioche lampade della camera d’albergo con un massiccio armadio sul fondo ma basta poco perché quello stesso armadio si riveli per lo skiline della città tedesca o per il camerino di Olga ai tempi dell’inizio della loro relazione: perché poi questa è anche una storia d’amore, quella tra Anton e Olga, tra l’Autore e l’Attrice, percorso che inevitabilmente s’interseca con l’itinerario artistico dei due cosicché le parole d’amore spesso, tanto spesso, coincidono che le numerosissime citazioni dagli scritti di lui e dalle lettere di lei, dalle commedie – soprattutto Tre sorelle ma anche Zio Vanja, Il gabbiano e, ultima, Il giardino dei ciliegi – e dalle novelle, in primis Amore da pesci che viene raccontato praticamente per intero, col carassio che s’innamora di Sonja Mamočkina ma che poi per sbaglio bacia il giovane Ivan contagiandolo di pessimismo e di conseguenza diffondendo il pessimismo tra tutti i poeti di Pietroburgo che da allora, per questo, son così tetri e deprimenti.

Cosa che invece non riguardava affatto il giovane Anton, che notoriamente aveva una moglie – non Olga, la medicina, invece, suo primo amore che gli aveva consentito di esercitare dedicandosi ai poveri e ai diseredati, quegli stessi infelici e falliti che ritroviamo nella sua opera – e un’amante, la scrittura e il teatro, che lo contagiò a tredici anni quando La belle Heléne di Offenbach gli fece assaporare per la prima volta il gusto di una finzione che è via breve e sicura per la conoscenza della realtà, tentando poi di convincere Stanislavskij, per tutta la vita, che quel che lui andava scrivendo non eran tragedie cupe e desolate bensì commedie – quasi quel sempre vagheggiato vaudeville – dotate d’allegrezza fine e raffinata, quella stessa che nella pièce di ieri sera si è cercato di rendere, con qualche fatica, occorre dire, intersecando continuamente il grave e il leggero, le citazioni colte e quelle semplici, le musiche che spaziano dal classico al leggero, dal ballabile al jazz, da Mahler a Bacharach, in un percorso di cui è facile comprendere il senso ma che spesso appesantiva un po’ troppo la vicenda, invece semplice – come un racconto di Čechov – nei suoi tratti essenziali che spesso si perdevano nell’ansia continua del riferimento, della frase, della menzione, fino a risultare alla fin fine, il tutto, piuttosto artificioso.
E finisce, allora, questo spettacolo, per imbrigliare e imbalsamare l’attenzione in lunghi dialoghi costruiti in una lingua un po’ troppo wikipedioso, dilungandosi pedantemente sulle coordinate geografiche della città di Badenweiler, ridente cittadina termale al margine occidentale della Foresta Nera o indugiando nel compiacimento un po’ vanaglorioso della fama di Čechov fuori dai confini nazionali: scrittura tra il letterario e il burocratiforme che avrebbe dovuto esser meglio distillata al vaglio delle prove e della scena, accorciando il divario tra scritto e detto, eliminando lo stereotipo convenzionale o le incongruenze emotive che non permettono alle copiosissime evocazioni di ricordi e citazioni cechoviane di andare oltre l’erudizione e il gusto un po’ saccente della noticilla per arrivare, alla fine, a toccare il cuore.
E questo, si badi, al di là dell’indubbia professionalità e bravura degli attori, in primis di Claudio Di Palma, chiamato a interpretare una sorta di narratore che s’incarna nella figura tormentata – e indubbiamente cechoviana – del medico tedesco che ormai ha scordato la professione per finire col mutarsi nel costoso trastullo degli anziani danarosi che arrivano in quel luogo degli ultimi residui piaceri: ne dà, l’attore, al netto delle artificiosità linguistiche di cui si è detto, un perfetto ritratto cinico e disincantato che tuttavia si arrende, col passar del tempo, all’umanità straordinaria di quel suo illustre paziente, di cui non ha granché letto ma di cui ha sentito certamente parlare immerso com’è nella mondanità. Imperdibili i quattro passi di danza su Raindrops Keep Fallin’ on My Head che sono – dovrebbero – essere la chiava giusta per questo spettacolo se non si perdesse troppo a rimirar se stesso.

E gran prova di equilibrio danno pure i due interpreti della coppia Anton-Olga – Silvia Ajelli e Arturo Muselli – lei attrice e moglie che si prova ad esser quella e questa con grande impegno ed enorme dedizione, nella piena consapevolezza, tuttavia, di esser arrivata troppo tardi nella vita del suo uomo, già tutto preso, come abbiamo detto, dalle sue grandi passioni, la medicina e l’arte letteraria, tradendo spesso la prima per la seconda e appena sulla soglia di cedere alla sua nuova amante, quella passione malata che è la tisi e che lo porterà a morte, impedendogli di vivere appieno ciò che poteva essere e che è stato solo in parte, l’amore di Olga, che sarà per gran parte epistolare, lui partito per la Crimea per curarsi, lei rimasta a Mosca per gli impegni della Compagnia del Teatro d’Arte.
Ed è appunto sul fil rouge di quelle lettere che si costruiscono i dialoghi tra lui e lei in questa pièce, unici personaggi per intero reali della vicenda che tuttavia, come tutti i personaggi di Čechov, traggono nutrimento della loro solitudine e nelle loro stesse parole, rinchiusi nelle bolle dei propri vissuti, dei propri ricordi, delle proprie emozioni, di giorno in giorno, di chiacchiera vana in chiacchiera vana, aspettando l’inconcludente e millenaristica palingenesi (A Mosca! A Mosca! A Mosca!) passando la vita, arrivando la morte – che non esiste – quasi come un dolce abbandono, un transito leggero, un lieve sparire dietro un sipario.
Quando tutto sembra compiuto, quando le luci delle applique sui lati della scena centrale si accendono, indicando che la commedia è finita, entra in scena l’ultimo attore, il cameriere dell’albergo interpretato con arguzia da Antonio Elia: il suo compito, umile e discreto, sarebbe solo quello di ritirare i calici di cristalli che poche ore prima aveva portato in quella camera, insieme a una bottiglia di Moët. È lì, nella penombra di quella camera, che da Olga, alla quale ha offerto con reverenza un mazzo di rose, riceverà, mezzo assonnato e con la divisa in disordine, l’incarico che dà nome alla pièce: contattare la migliore delle imprese di pompe funebri della città perché Anton Čechov è morto.
La consapevolezza improvvisa della morte, in uno con l’importanza di simile incombenza agisce come una potente sveglia sul giovanotto, se non fosse per un piccolo particolare che non può fare a meno di attirare, proprio in quel momento fatidico e cruciale, la sua ridestata attenzione: a terra, abbandonato e in disordine, campeggia indifferente il tappo di champagne, segno e sintomo, sull’immacolata moquette, della sua personale trasandatezza, dell’accidia, forse perfino di una colpevole scioperatezza indolente ed efferata. Occorre porvi rimedio, ma le mani sono occupate dal vassoio con i calici e dalle rose e poi non sta bene chinarsi a terra in quel frangente supremo e assorto: l’incertezza lo scoraggia al punto da paralizzarlo, in un perfetto finale cechoviano un attimo prima che cali la tela e, improvvisi, comincino i primi applausi.