Scrutatori della mente di Blanche nel “Tram” contemporaneo di Antonio Latella

Al Metastaso di Prato è approdato “Un tram che si chiama desiderio” rivisitato da Antonio Latella, premio Ubu 2012 per la regia

Il 3 dicembre 1947, Elia Kazan mette in scena a Broadway, in teatro, Un tram che si chiama desiderio, con il debuttante Marlon Brando e la già affermata Jessica Tandy. La versione teatrale italiana non si fa troppo aspettare e debutta, tra critica e imbarazzo, nel 1949 al Teatro Eliseo di Roma sotto la regia di Luchino Visconti e le scene di Franco Zeffirelli con le interpretazioni di Vittorio Gassman nei panni di Stanley  Marcello Mastroianni in quelli di Mitch. Appena due anni dopo, nel 1951, il regista Kazan, firma la fortunata versione cinematografica sempre con Brando nel ruolo del protagonista Stanley Kowalski, mentre il ruolo di Blanche DuBois, nella versione teatrale affidato alla Tandy, viene destinato a Vivien Leigh. La Leigh da quell’interpretazione non riuscirà più a riprendersi psicologicamente, impazzendo e finendo i suoi giorni credendo di essere Blanche DuBois.

Dopo una lunga serie di messinscene nei teatri italiani, tra le quali ricordiamo l’ottimo allestimento del 2001 con Paola Quattrini ed Enrico Lo Verso sotto la regia di Lorenzo Salveti, è Antonio Latella che dal 2012 si riappropria del testo di Tennessee Williams e ne ripropone un suo personale adattamento avanguardistico (premiato con il Premio Ubu 2012 per la regia), visto al Teatro Metastasio di Prato.

Latella capovolge l’opera di Williams iniziando la narrazione dal finale della vicenda, quando Blanche viene rinchiusa in una casa di cura. Come in una seduta di analisi, il nastro si riavvolge sul passato recente di Blanche, facendo emergere tutto il marcio celato dietro il suo conformismo di facciata. Un viaggio introspettivo nella mente di Blanche, donna depressa, sola e ferita, ma non solo, Un tram che si chiama desiderio rappresenta anche lo scontro tra due mondi contrastanti ma simili nella loro bestialità: l’uno, elitario e decadentista che persiste a vivere nell’illusione di un passato e la distorsione di un presente (Blanche); l’altro, povero e ambizioso che cavalca con orgoglio il sogno americano (Stanley).

Dieci fari abbaglianti di un’americana ribaltata verso la platea del teatro accolgono il pubblico in sala. Nello spazio scenico è allestito un ambiente domestico con oggetti quotidiani im-praticabili, poiché colmi di proiettori e amplificatori, di cavi elettrici che li collegano bene in vista sul piano del palcoscenico. Quel che resta del mobilio sono la struttura in legno grezzo di un tavolo, una ghiacciaia, un letto, una sedia, una vasca da bagno: ricordi scheletrici di un ambiente familiare divenuto ambiente cerebrale, rovine aristocratiche della mente di Blanche. Il testo realista di Williams si dipana per intero, compreso prologo e didascalie scandite dal Medico cha ha il compito di dare il la alla narrazione e di introdurre i personaggi dell’opera, che fanno il loro ingresso tutti in abiti contemporanei, con riferimenti alle stelle e le strisce della bandiera americana simboleggianti il sogno di Stanley, polacco, “ultimo esemplare dell’età della pietra”, che indossa orgoglioso una maglietta raffigurante Marlon Brando.

“Quel faro che si era acceso sul mondo si è spento di nuovo”, così Blanche definisce il dramma del suo matrimonio finito in disgrazia dopo aver scoperto l’omosessualità del marito. Quel bagliore, di cui parla Blanche è la luce che troviamo all’interno della messinscena di Latella, gli squarci accecanti dei ricordi di Blanche “donna moralmente indegna del suo ruolo” come le urla più volte Stanley, fanno da contraltare alle zone d’ombra che cerca di nascondere attraverso bugie tramutate in verità, e che cadranno come foglie al vento nell’inevitabile incontro carnale con Stanley.

La regia di Antonio Latella è impeccabile e traccia un nuovo punto di vista sul testo di Williams dando all’intera opera un respiro contemporaneo, grazie anche alla traduzione di Masolino D’Amico. Numerose le trovate sceniche originali, basate sul ritmo, variazioni di registro e su una narrazione poetica avanguardistica che in alcuni quadri raggiunge il lirismo.
Efficaci le luci di Robert John Resteghini e il suono di Franco Visioli, che a suon di strobo ed effetti sonori, conducono lo spettatore nelle più recondite reminiscenze di Blanche.

All’altezza l’intero cast di attori, che attraverso ritmo e una grande pulizia scenica sviluppano per tre ore un testo tutt’altro che facile. Energica interpretazione di Elisabetta Valgoi nei panni di Stella che gli è valsa il premio Ubu 2012 (ex-equo con Federica Santoro) come miglior attrice non protagonista. Meno convincente lo stereotipato Stanley di Vinicio Marchioni, con accento polacco (eccessivo), urla alla Fred Flinstones e movenze alla De Niro stile Taxi Driver (già visto). Ottima infine la Blanche di Laura Marinoni, che con una prova attoriale intensa ed emozionale riesce a mostrarci l’anima multiforme ed inviolabile della protagonista.

Applausi.

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