
[rating=3] Molta attesa per lo spettacolo teatrale, tratto dal famoso testo di Anton Cechov, “Zio Vanja” con Sergio Rubini e Michele Placido ad una settimana precisa dal debutto nazionale di Pistoia. A questo spettacolo, che verrà portato in giro in tutta Italia, seguirà il film prodotto dallo stesso Placido che sarà girato in una masseria pugliese la prossima estate.
Marco Bellocchio, alla regia del suo terzo spettacolo teatrale oltreché del futuro film, per l’occasione è in platea del teatro Duse, anche se si materializza a spettacolo già praticamente iniziato, sparisce nell’intervallo e scappa via prima degli applausi finali. Ride e si diverte con il pubblico, pur rimanendo concentratissimo e impenetrabile.
Sergio Rubini interpreta il protagonista, lo zio Vanja, gestore insieme alla nipote Sonia di una tenuta nella campagna russa. Tutte le loro azioni, tutti i loro sforzi sono concentrati nel garantire la rendita più alta possibile al professore Serebjakov (Michele Placido), proprietario della tenuta, padre di Sonia e cognato di Vanja, al fine di consentirgli una vita agiata e prolifica, di sollevarlo dagli impegni terreni per concentrarsi sull’arte, la scienza e il successo. Vanja e Sonia sono completamente assorbiti dal lavoro nella tenuta e sacrificano la loro vita per il bene del professore fino a quando questi, rimasto vedovo, si risposa con la bella Elena, di cui Vanja si innamora follemente. Improvvisamente i meriti e le imprese del luminare, che hanno motivato tanti sforzi e tanta dedizione, sembrano futili e insignificanti: “da 25 anni scrive di arte senza capire niente di arte”, “per 25 anni ha rubato il posto ad un altro”. L’amore gli ha aperto gli occhi, è la scintilla che illumina la vita di gran parte dei personaggi di Cechov ed è anche la loro principale fonte di disperazione. Come in Elena, dove l’amore la lega al professore ma poi la abbandona quando ormai è la moglie di un vecchio, inserita in una teca di vetro, bella ma senza altri talenti degni di nota. O come il dottore, che accorre ad ogni minimo acciacco del professore per poter stare con Elena solo qualche istante, “mi appassiona la bellezza”, e così facendo non può accorgersi dell’amore sincero che nutre per lui Sonia.
Ogni personaggio ha in mano la ricetta della propria felicità, ma tutto è legato all’altrui volere, sempre contrario. Gli amori sono impossibili e quando non lo sono svaniscono presto come pozzanghere al sole estivo, generando nuove aspettative, nuove pulsioni. La disperazione e la rassegnazione prendono piede: “Quando non c’è la vita, la vita vera, si vive di miraggi”.
Il professore ha comunque la soluzione a tutti i loro problemi: intende vendere la tenuta e col ricavato comprarsi una casa per sé e per Elena, allo scopo di garantirsi una rendita personale con i restanti soldi. Oltre a vendere un bene anche di proprietà della figlia, non pensa minimamente alla fine che faranno Vanja e i suoi familiari. Si ha la conferma che è completamente avulso dalla realtà, fino ad ammettere: “io queste cose non le capisco, non ci avevo pensato”. Vanja ha la possibilità di urlargli contro tutto il suo odio per averlo costretto ad una vita di stenti, ancora una volta ottenendo risposte che generano un riso amaro: “se lo stipendio che ti prendevi non ti bastava potevi aumentartelo da solo”.
Dopo la furia, le urla e due colpi di pistola che non centrano il bersaglio, Vanja si calma e tutto ripiomba nella depressione più nera: “Ho 47 anni e la vita media è di 60 anni, Come vivrò per altri 13 anni?”. Tutto torna come prima, Vanja e Sonia lavorano nella tenuta “per non pensare, per occupare il cervello”, “per gente come noi non c’è speranza”. La frase finale che Sonia dice a Vanja, bellissima quanto straziante, riassume tutto quello che abbiamo visto: “Che fare? Bisogna vivere! Noi vivremo, Zio Vanja. Vivremo una lunga, una lunga sequela di giorni, di interminabili sere. Sopporteremo pazientemente le prove che ci manderà la sorte. Faticheremo per gli altri, adesso e in vecchiaia, senza conoscere tregua. E quando verrà la nostra ora, moriremo con rassegnazione e là, oltre la tomba, diremo che abbiamo patito, pianto, sofferto amarezza…”
Un bel Cechov quello che si vede nella regia di Bellocchio, che viene fuori soprattutto dai monologhi del bravo Sergio Rubini e dall’inconsapevolezza del professore (Placido stavolta è dentro al personaggio fin dall’inizio, senza sbavature) ma che è presente anche in tutti gli altri personaggi, molto curati: anche la balia, che entra in scena inseguendo delle galline immaginarie, ci riporta subito alla mente con molta nitidezza le scene contadine della campagna russa. Successo di pubblico.