
[rating=5] Chiude una brevissima ma quanto mai pregevole stagione contemporanea, inaugurata da Die Soldaten di Zimmermann e proseguita con CO2 di Battistelli, il Wozzeck di Alban Berg appena allestito al Teatro alla Scala di Milano.
Opera che ha già calcato il palco del Piermarini in diverse occasioni sotto la regia e la direzione di artisti eccezionali, lo spettacolo in scena a novembre è quello del 1997 di Jurgen Flimm, la cui ultima ripresa scaligera era del 2008. Questa regia storica di Flimm riscatta senza dubbio l’Otello di Rossini malamente allestito a luglio e restituisce al maestro tedesco i giusti meriti legati al suo nome.
Wozzeck è un gioiello unico nel suo genere, denso di simboli e citazioni eppure impossibile da categorizzare. Un’opera in cui dramma e musica si intrecciano per servirsi ed inseguirsi a vicenda, dal notevole impatto emotivo, espressionista, che si sublima in una tradizionalissima catarsi melodrammatica.
La storia, e l’ispirazione, vennero al compositore austriaco dal dramma romantico di Georg Buchner “Woyzeck”. Un lavoro teatrale incompiuto di fortissima intensità e di grande innovazione. Il Woyzeck di Buchner racconta in una carrellata di scene spezzettate e frantumante la storia angosciante e violenta di Johann Christian Woyzeck, protagonista di una macabra vicenda di cronaca nella Boemia di inizio ‘800. Alban Berg ne colse la portata evocativa alla vigilia della Grande Guerra, ma solo nel 1922 l’opera potè calcare le scene. Attesissima e contestatissima, Wozzeck inscena la crudezza dell’alienazione umana, il cinismo dell’Europa borghese: le forme classiche e i numeri chiusi a bella posta ammantano di ingenuità un manifesto di denuncia irriverente e antimorale. Niente è però casuale: ogni scena ha una funzione specifica ed una coerenza interna, ogni atto è un quadro delimitato e conciso.
Il Wozzeck di Berg si può dire essere la prima opera della musica d’avanguardia, in cui la composizione atonale si cimenta con una storia da raccontare. Ed è lo stesso Berg ad ammonirci di quanto sia il dramma al centro del suo capolavoro, e di quanto la musica sia improntata al suo migliore servizio. Non solo la partitura, con i suoi simboli, i leitmotiv e gli effetti così ben centellinati inaugurano una nuova retorica (antiretorica?), ma è la stessa disposizione degli strumenti d’orchestra ad essere strettamente funzionale all’esecuzione.
Ben due complessi in scena, una banda durante il primo atto, con diverse percussioni, ed un’orchestrina da taverna nel secondo, oltre ad un pianoforte “scordato” nel terzo atto, sono previsti e richiesti dallo spartito, che durante il secondo atto prevede anche un’orchestra da camera separata da quella sinfonica. Una stereofonia che include gli strumentisti nella regia dell’opera: la musica parte attiva e coattiva della storia narrata e narrante. Problemi antichi dell’opera, che nel Wozzeck vogliono fare i conti col ‘900.
La trama rielabora la vicenda di cronaca originale in chiave psicologica, insistendo sugli elementi di alienazione sociale (l’esercito, la morale, la medicina) e sulla follia del protagonista.
Wozzeck è il barbiere della truppa e, mentre sta assolvendo al suo mestiere presso il Capitano, viene schernito per la sua condotta immorale: egli infatti convive con Marie senza essere sposato. Il giovane è però sempre più vittima di allucinazioni: nel pomeriggio, andando per legna con il commilitone Andres, la sera, rincasando presso Marie e il loro figlio, e il giorno dopo, nello studio del Dottore (Wozzeck si sottopone alle cure sperimentali del Dottore per denaro). Marie, nel frattempo, viene sedotta e si lascia sedurre dal Tamburo Maggiore della compagnia.
Mentre Marie osserva e ripone gli orecchini regalategli dal Tamburo Maggiore, rincasa Wozzeck. Il soldato è morso di gelosia, ma si lascia convincere a riappacificarsi e a consegnare alla convivente la propria paga. Il giorno seguente, mentre il Dottore sta diagnosticando nuovi mali al Capitano, Wozzeck viene nuovamente berlinato da insulti e scherni. Il tradimento di Marie è già sulla bocca di tutti.
Tornato a casa, Wozzeck ha un furioso litigio con Marie che si conclude con minacce di morte. Le allucinazioni di sangue e violenza iniziano a confondersi con la realtà. La bella Marie è ormai l’amante del Tamburo Maggiore, Wozzeck e gli altri soldati li vedono ballare insieme durante una festicciola nella locale taverna. Un pazzo, avvicinandosi a Wozzeck, gli predice un destino sanguinoso.
A notte fonda, finita la festa, il Tamburo Maggiore malmena il povero Wozzeck, già preda della paranoia e sempre più assente a se stesso, ormai abbandonato anche dall’amico Andres. In casa, intanto, Marie prega col figlioletto a lume di candela e dispera per la propria immoralità invocando la pietà di Dio. Il giorno seguente Marie e Wozzeck passeggiano in riva ad un laghetto. Il giovane soldato, ancora allucinato e morso dalla gelosia, pugnala Marie e fugge.
In una bettola Wozzeck cerca conforto nel vino e nelle donne, ma le sue mani sudicie di sangue tradiscono il misfatto e la curiosità dei presenti lo convince ad andarsene. Sul momento si accorge di aver lasciato il suo coltello di fianco alle spoglie di Marie. Corso in riva allo specchio d’acqua, getta il pugnale alla deriva e si immerge per lavarsi.
Accecato dalle allucinazioni Wozzeck si vede inzuppato di rosso e tutto il lago gli appare irrorato di sangue: al culmine della folle disperazione e del rimorso, si lascia infine affogare. Il mattino, mentre il figlioletto gioca a cavalluccio con i giovani coetanei, una voce avvisa del ritrovamento del corpo di Marie. La folla corre allo stagno, il ragazzino, senza capire, continua a giocare.
La regia, pulita e semplice, quanto geniale, ricuce la segmentazione del Wozzeck unificando la scenografia. Come un teatro nel teatro la vicenda si svolge nell’alveo di un’unica scena concava, di cui esiste un retro nascosto da cui fanno capolino i personaggi e che ospita di volta in volta i diversi ambienti. Le luci sempre vivide, i costumi da primo ‘900 astratto, tra il gotico e l’apocalittico, le gestualità da teatro dell’assurdo, gli oggetti realistici al dettaglio, benchè volutamente grotteschi, e i colori sempre cupi, tra cui il funebre rosso sangue, contribuiscono ad una regia del tutto coerente con questa opera visionaria.
La scelta poi di non fermare lo spettacolo con intervalli o pause tra gli atti è vincente: respirare il Wozzeck tutto d’un fiato, come una tragedia antica, con l’unica differenza che questa volta la catarsi è rimandata e l’eroe è un misero e meschino signor nessuno, stordisce lo spettatore appagandolo. Non c’è spazio per le conversazioni salottiere nei foyer, ma solo l’opera per l’opera. Musica, dramma, teatro.
Sul podio d’orchestra il maestro Ingo Metzmacher, che aveva già diretto Die Soldaten di Zimmermann. Metzmacher ha fatto valere ancora una volta tutta la sua straordinaria professionalità: nel dirigere l’orchestra e i complessini in scena è riuscito non solo a far risplendere ogni passaggio della difficile partitura ma anche a renderne tutti i caratteri d’espressività. Una grande prova per lui e per tutti gli strumentisti.
Straordinaria prestazione anche del cast, in piena forma durante tutto lo spettacolo. Sconvolgente il Wozzeck del baritono Roman Trekel, ottimo attore e grande interprete delle tecniche di canto novecentesche. Bravissima anche Ricarda Merbeth, Marie, dalla voce sensuale e struggente, pienamente a suo agio nella parte. Ottimi Roberto Sacca, il Tamburo Maggiore, Wolfgang Ablinger-Sperrhacke, il Capitano, e Alain Coulombe, il Dottore: il trio di voci maschili beffarde e stridenti, allucinazioni viventi del disgraziato Wozzeck.
Eccellente anche l’Andres di Michael Laurenz, nei suoi brevi interventi, come del resto Rudolf Johann Schasching, nel ruolo del folle indovino, e la voce bianca Tito Comoglio, nella parte infelice del figlio di Marie e Wozzeck.
Bravissimi il Coro del Teatro alla Scala e il Coro di voci bianche dell’Accademia scaligera, che in questa stagione non hanno mai deluso. Grande prestazione per le altre parti minori affidate ai cantanti Andreas Hörl, Marie-Ange Todorovitch, Modestas Sedlevicius e Sascha Kramer, questi ultimi entrambi solisti dell’Accademia del Teatro alla Scala.
Il teatro pieno e gli applausi soddisfatti hanno testimoniato il grande potenziale che la musica atonale può suscitare al Piermarini, nonostante ogni aspettativa e contro ogni tradizione. Bene così!