
Ma Norma chi è? Ce lo si domanda ogni volta che la si ascolta o la si vede. E’ una madre, è una sacerdotessa, è una donna di potere, è una vittima, è una leader, è un’amante: Norma chi è? Norma è una donna.
Una donna vera e propria fatta di anima e musica: ogni volta che ho a che fare con Norma non riesco a pensare quale altro personaggio così vero stia al pari di quanto Romani e Bellini abbiano saputo creare in questo capolavoro: così ben sfaccettato, così multiforme. Ecco perché è difficile essere Norma: forse perché è difficile essere donna.
E’ bello vedere però quando qualcuno riesce a entrare in quelle vesti e cerca, al meglio delle sue possibilità di far vivere quell’anima e quella musica. Certo scegliere di fare i cantanti richiede coraggio ma accettare di essere una donna come Norma ci vuole un coraggio da leoni.
Nella data della nostra recita abbiamo assistito all’interpretazione di Csilla Boross (indisposta alla prima) nei panni della sacerdotessa belliniana: e il soprano ungherese ha dimostrato che di coraggio ne ha in abbondanza. Ha infatti giocato tutto il ruolo nella ricerca del personaggio o meglio della “donna” e di tutta la sua complessa sfera emotiva. Impressionante e struggente il senso di tenerezza materna che riesce ad esprimere (complici i due adorabili bimbi in scena?). Il volto e i gesti si adattavano perfettamente alle virate emotive del personaggio: mai banale o scontata, sempre vera.

Esattamente come succederebbe a chiunque di noi nel quotidiano, le emozioni le avverti sul fondo dello sguardo, trasformando il volto e il gesto in modo naturale e non per ricerca estetica. Frasi come “oltre l’usato”, “diversi affetti”, il trasalire improvviso in “oh! S’ei fuggir tentasse… e qui lasciarmi!” o ancora “tremi tu, tremi tu?… e per chi? E per chi?”, l’attacco di “dormono entrambi” assumono così la connotazione del vero, e il gioco del teatro (non solo dell’opera…) è fatto. Certo il canto della Signora Boross ha ancora bisogno di crescere e di piegarsi molto al belcanto visti i ruoli che sta frequentando con assiduità. Si notano poi preoccupanti asprezze nel registro acuto; ed è un peccato perché la voce ha bellissimi toni e si piega duttilmente in pregevoli messe vocali, ma manca proprio quel passaggio a metà tra il mezzoforte e il fortissimo in cui la voce viene spinta nel registro estremo, sfociando talvolta in suoni gutturali e privi di armonici perché a gola tesa. Artista cresciuta come soprano di agilità vira ultimamente nella nuova identità di soprano spinto drammatico, come lei stessa ama riconoscersi, questo forse a discapito delle agilità che non sono ancora fluide e sgranate. Ma, affrontare il canto spinto d’agilità richiede che si curi sia l’aspetto drammatico ed imprescindibilmente l’aspetto belcantistico, evitando così che col tempo si creino impietose crepe nella voce.
Csilla Boross ha sostenuto il ruolo fino alla fine con una concentrazione altissima e dimostrando un’invidiabile tenuta vocale, come difficilmente si possa sperare in epoche attuali. Ha dato una bella prova nelle arie e negli splendidi duetti con Adalgisa nonché in un finale coinvolgente strappando spesso applausi a scena aperta. Ma è nella costruzione dei recitativi che la sua Norma diventa davvero interessante, fatti di indugi, di piccoli rubati, silenzi che parevano interminabili per quanto erano profondi: ed è questo che mi sono portato a casa domenica sera. Nel complesso una prova ottima.

Ottimo anche il resto del cast. Nel ruolo dei Pollione il tenore Rubens Pelizzari si è difeso dall’antipatia del personaggio come meglio ha potuto: “almeno canta bene” ho pensato, ma haimè il personaggio resta quello che è. Bene la difficile aria di sortita che convince il pubblico così come il resto dell’interpretazione. Anna Maria Chiuri ha dato un’ottima prova di bel canto con i mezzi vocali ragguardevoli: anche se la sua interpretazione di Adalgisa avrebbe meritato un maggior scavo psicologico. I duetti con Norma hanno giustamente rappresentato alcuni dei momenti più alti della recita, in particolar modo il secondo “Mira o Norma”. L’Oroveso di Marko Mimica in scena sembra il più giovane di tutti anche se a rigore di storia dovrebbe essere il più vecchio: comunque canta piuttosto bene e il timbro è piacevole e pastoso appoggiato ad una tecnica solida. Validissima la Clotilde di Madina Karbeli mentre è poco credibile il Flavio di Antonello Ceron. Una menzione speciale la faccio ai due bimbi in scena: irresistibili.
Ottima la prova dell’Orchestra dell’Arena di Verona, che sta dimostrando negli ultimi anni di crescere sempre qualitativamente con risultati all’altezza di Orchestre più blasonate. Al chiuso del teatro filarmonico poi si può godere maggiormente dei loro ottimi progressi. Bella prova anche il Coro istruito dal Maestro Vito Lombardi. Peccato che la direzione anonima di Francesco Ivan Ciampa non sia riuscita ad entrare veramente nelle pieghe del dramma di questa donna.
Quanto alla regia di Hugo de Ana, questa volta proprio non mi ha convinto. L’attualizzazione in “panni” napoleonici mi è parsa forzata e forse più un pretesto per creare uno spettacolo “bello”: fatto di colori e scene più che di anima. Premetto che amo molto assistere a spettacoli che sappiano andare oltre la didascalia, magari attualizzando o decontestualizzando il dramma dalla storia; e, premetto di amare molto parecchi lavori di De Ana, uno su tutti il suo Nabucco in Arena (ma perché non lo si ripropone più?), che sa creare spettacoli di altissimo livello con idee vincenti. Ma questa volta il gioco non funziona: l’attualizzazione cozza ogni tre per due col libretto; la figura della sacerdotessa ne risulta goffamente compromessa perdendo di credibilità e di autorità istituzionale. Già infatti è difficile credere che una sola donna tenga in pugno tanti militari men che meno una “signora-da-salotto-buono” con il pallino per l’esoterismo potrebbe tenere ferme le armate napoleoniche e quelle austriache al tempo stesso. Mi spiace, ma pur nella sua magnifica bellezza estetica (costumi, scene, luci infatti ricostruiscono un delizioso neo classico) lo spettacolo parla purtroppo un linguaggio muto.
Pubblico festante e tra quelli anche io, una volta tanto.