La vedova (poco) allegra

[rating=2] Se qualcuno si chiedesse oggi ove mai possa risiedere la ragione del fascino che ancora esercita su noi tutti un’operetta come La vedova allegra, credo che non potrebbe sfuggire il senso di nostalgia carica di profumo d’erotismo ch’essa porta con sé: non è, al contrario di quel che si possa pensare a prima vista, solo una leggera pièce incentrata sulla favoletta della donna bella (e ricca) che trova l’amore nel bel conte scavezzacollo (e spiantato); essa vive, certo, del contrasto tra l’amore e il danaro, tra l’essere e l’avere (o l’apparire, più modernamente): tuttavia le appartiene pure un’indefinita struggente malinconia, incerto rimpianto di ciò che più non è. Quando Lehar la compose, nel 1905, il mondo che descriveva non esisteva già più: la Vienna cui culturalmente si riferiva stava vivendo gli ultimi sprazzi di quella bella époque che così bruscamente sarà interrotta dai fuochi della guerra ma che portava già in sé, a ben vedere, le stimmate della morte (quell’oscura sensazione cui si riferisce Joseph Roth ne La Cripta dei Cappuccini, quando dichiara che “sopra i calici dai quali noi bevevamo la morte invisibile incrociava già le sue mani ossute”). E anche Parigi, la città ove l’operetta è ambientata, tra l’art noveau di Chez Maxim’s e improbabili ambasciate di oscuri staterelli balcanici (evidente presagio d’arciduchi assassinati), viveva in quel momento di ben altre sollecitazioni culturali, tra arte fauves e futurista, anticipo delle signorine d’Avignon che di lì a poco terremoteranno il mondo intero. Che rapporto c’è, dunque, tra Les Demoiselles d’Avignon e Die lustige Witwe? Nessuno, in apparenza, tranne la direzione opposta dello sguardo a partire dal medesimo punto: così il guardare indietro dell’una è simmetricamente opposto e inverso allo scrutare in avanti dell’altra opera: pure, è proprio questa studiata bramosia del passato (probabilmente d’un passato falso e bugiardo) che è all’origine del piacere che ancor essa ci dà.

La vedova allegra

Che senso ha, dunque, spostare in avanti, d’una ventina d’anni, lo svolgersi degli eventi, come ha fatto il regista Federico Tiezzi in questo allestimento che già conta diversi anni, mettendo in scena La vedova allegra qui al San Carlo di Napoli? Il grande orologio calendario luminoso che campeggia in alto, sulla prima scena all’apertura del sipario, porta la data inequivocabile e fatidica del 29 ottobre 1929: l’inizio della più grande crisi economica dei tempi moderni segna in modo indelebile il senso di questa rappresentazione, ipertrofizzandone le componenti “economiche”, che, certo, sono indubbiamente presenti nel DNA dell’operetta ma che, così enfatizzate, imprimono un tono decisamente più grigio all’intera vicenda, non essendo abbastanza bilanciate, a parer mio, da un’altrettanto incisiva idea sul piano erotico-sentimentale, dove invece si soffre un po’ la noia, nonostante le argute battute e l’indubitabile verve del Njegus di Peppe Barra. Le belle scene del primo atto di Edoardo Sanchi, pur nei precisi riferimenti all’architettura di Otto Wagner e Adolf Loos, respirano un’aria di seria severità, pur tra contaminazioni art dèco e contemporanee, come le scritte verticali luminose che ricordano la Borsa, insistendo ancora sugli aspetti economici, che culminano nell’entrata di Hanna Glawari, che esce da una robusta ed enorme cassaforte. Tuttavia, pur ammessa la presunta bontà dell’idea iniziale, alla fine un po’ ci si perde, e così tra parrucche platinate e citazioni cinematografiche, lo spettacolo risente in brio e spessore e mestamente ci si avvia – con un sospiro di sollievo – verso la scontata conclusione, senza riuscire a comprender in qual modo e per quali non banali riferimenti l’Hanna Glawari possa risultar, secondo Tiezzi, l’ultima incarnazione del femminino nel teatro, dalla Locandiera a Nora fino addirittura a Brecht. E questo francamente ci sembra un po’ troppo. Anche sul piano musicale, la pur corretta direzione di Alfred Eschwé non sembra provocare il guizzo d’effervescenza necessario alla bisogna, e pure gli innesti spuri – oltre al solito e scontato Can-can di Offenbach, anche una non trascinante Risata di Berardo Cantalamessa che il Barone Zeta canta ricordando i tempi in cui era “ambasciatore a Napoli” – risultano alla fine armi spuntate, non riuscendo a risolvere uno spettacolo certamente decoroso ma sicuramente un tantino noioso.

La vedova allegra

Anche il sipario di lamé a mezza altezza non convince del tutto, in verità, restituendo una spiacevole sensazione tra il siparietto da avanspettacolo (mi aspettavo di sentire da un momento all’altro un “…vieni avanti, cretino!”) e la tenda della doccia, mentre i grandi decori floreali dei duetti d’amore hanno un’aria vintage e retrò anni cinquanta; la scena di Maxim è più vivace ma la grande scala ricorda troppo da vicino – più che il musical – il varietà e Wanda Osiris. Il coro, sparuto, sembra un po’ spaesato e il corpo di ballo fa quel che può sulle coreografie di Lienz Chang, risultando convincente sol proprio nell’indebito trapianto offenbachiano; Maria Pia Piscitelli (Hanna Glawari) ha buona musicalità, evidente soprattutto sulle note basse, mentre soffre un po’ nel registro acuto, senza che questo, tuttavia, infici un’interpretazione soddisfacente; Marco Di Sapia (Danilo Danilowitsch) ha voce dal timbro scuro e di adeguato volume, accompagnata da ottima presenza scenica. Filippo Morace (il Barone Zeta) ha recitazione briosa e la tempo stesso misurata, accompagnata da ottima dizione e voce chiara; Anna Maria Sarra è stata una Valencienne credibile scenicamente e musicalmente, anche se a tratti la sua voce è parsa un po’ piccola; voce dal timbro chiaro e preciso quella del Rossillon di Andrea Giovannini. Da segnalare le buone caratterizzazioni di Enzo Peroni (de St-Brioche) e Domenico Colaianni (Cascada), oltre che la già citata ottima prova del Njegus di Peppe Barra. Alla fine, comunque, molti applausi per tutti da parte di un teatro pieno in ogni ordine di posti, a conferma dell’immutato fascino di questa operetta.

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