Evgenij Onegin nell’invenzione d’acqua di Znaniecki

[rating=4] È banale perfino ricordarlo: i melodrammi son soliti trattar d’amore: e ci son quelli che ineluttabilmente precipitano verso la morte di uno o addirittura di entrambi i protagonisti, tanto è l’amore romantico d’esigente sentire, ché tutto divora e distrugge tra desiderio e passione; e ci son poi quelli allegri, dal classico happy end, il vissero felici e contenti delle favole della nostra infanzia: l’amore risolve tutto in virtù della sua indicibile potenza.

Ma ci sono altre storie. Storie che parlan d’amore ma che più somigliano al quotidiano vivere e soffrire di noi comuni mortali. A volte, infatti, l’amore gioca strani scherzi agli umani, che vorrebbero amare e lasciarsi andare alla passione al desiderio al sogno e invece – per le ragioni più diverse – ottengono solo dolore e sofferenza: il risultato è di regola quella stanca nostalgia ch’essi chiamano pace ma che è solo deserto dell’anima. Ecco, Evgenij Onegin appartiene a questa categoria. Non ci sono amori impossibili, non ci sono cattivi, famiglie, guerre, potenti che osteggiano l’amore. C’è l’animo umano, a volte insondabile e inconoscibile nella sua inesausta vocazione all’infelicità: e se l’amore viene dapprima ignorato da cuori induriti dal gelo della paura, dall’ansia di possesso, dalla noia del vivere, poi, quando quel freddo lentamente si scioglie, è troppo tardi e la vita è passata, la felicità, quella vera, è alle nostre spalle. L’acqua, con i suoi cambiamenti di stato, descrive bene questo movimento, questo divenire delle vicende umane; l’acqua, che sfugge tra le mani e non puoi trattenere nulla per te, l’acqua, che tanto somiglia al pianto ma che quando è ghiaccio è più dura e mortale della pietra, l’acqua che accoglie nel suo gelido abbraccio l’amico che uccidi per stupida ripicca.

Evgenij Onegin di Znaniecki

Con l’acqua il regista Znaniecki mette in scena l’Onegin: all’inizio è ghiaccio ma lentamente, nel corso dell’opera, inesorabilmente, col passar del tempo, diventa acqua: rappresenta, dice il fantasioso regista, così abbiamo letto, il cuore di Onegin che, da pezzo di ghiaccio che era, lentamente si scioglie e si liquefa, fino a diventare un piccolo stagno d’acqua cheta nel ballo finale. Certo, è giusto; a me l’acqua fa venire in mente però soprattutto il cambiamento, il mutar degli animi che investe tutti i protagonisti. L’acqua, il suo ciclo, il suo mutar di stato, diventa così metafora di crescita e cambiamento: non è solo il cuore di Onegin che muta col mutare delle stagioni e degli anni – anche se la sua maturazione è certo la più complessa; c’è Lenskij, così sicuro all’inizio del suo amore per la bella Ol’ga – e della sua amicizia per Onegin – e poi costretto a rinnegare quello e questa e disposto a chiudere i suoi conti su questa terra in un – per noi – inspiegabile e definitivo e attonito crescendo d’incomprensione e d’assurdo. Ma c’è soprattutto Tat’jana che inizia il suo tormentoso apprendimento nel corso della lunga notte che è come il cuore gelido dell’opera: Tat’jana è nella sua stanza, ma è come se fosse ancora fuori, nel tiepido giardino dei Larin; qui però la temperatura è più fredda, tutto si gioca in una tonalità d’azzurro che contrasta coi colori caldi di poco prima. Siamo nel cuore di Tat’jana. Siamo nel santa sanctorum dove tutto inizia. La famosa scena della lettera si svolge qui, in una stanza che non è una stanza, ma un luogo che sembra aperto alle intemperie – come l’animo di Tat’jana, che non conosce amore, che imparerà qui, nel corso di questa notte, come si possa perder la propria vita – o vincerla, alla fine, imparando comunque la propria verità. Di qui Čajkovskij ha iniziato a scrivere l’Onegin, come lui stesso ci confida: il regista Znaniecki non lo dice in alcuna nota di regia, né ne parla in alcuna intervista che mi è capitato di leggere, ma son sicuro che anche la sua regia è partita di qui: perché qui ti spieghi pienamente la funzione degli onnipresenti varchi sulle tre pareti della scena che volta a volta sono specchi dell’anima, finestre sugli abissi, feritoie che permettono al mondo esterno di entrare, aperture che permettono alle emozioni di uscire… Qui, in questa scena – qui dove sono stati concepiti, dico io – essi diventano la lettera stessa: appaiono su di essi allo spettatore le parole e le frasi della lunga lettera che Tat’jana compone, non senza reticenze, timori, inquietudini, e che poi affiderà all’onore di colui di cui non riesce o non vuole nemmeno pronunciare il nome. E anche questa recensione non può che essere centrata qui, dalla scrittura della lettera così simile – azzardava il musicista – alla lettera che – circostanze della vita – aveva ricevuto da Antonina e alla quale, novello Onegin, aveva regito con glaciale freddezza. Certo, aveva i suoi bravi motivi, tuttavia poi s’era pentito della durezza del suo cuore e aveva cercato Antonina – e s’era convinto a scrivere Evgenij Onegin.

Evgenij Onegin di Znaniecki

È dunque l’acqua che lega inesorabilmente i destini dei protagonisti, che li trascina, che produce incessanti, ciclici mutamenti e trasformazioni. E circolari son pure le tre grandi aperture cui abbian fatto cenno prima che dividono idealmente il palco, dove vengono vissuti gli avvenimenti in primo piano, ed un “al di là” che di volta in volta è cielo, bosco, ma anche ballo, canto di contadini, spazio per mostrare – ingranditi – particolari da sottolineare. Dunque, a volta a volta, diventa strumento nelle mani del regista per aggiungere, sottolineare, scomporre, aggregare, dividere, con grande sapienza inventiva: perché poi, alla fine, è bene dirlo, lette così, come poveramente le sto dicendo io, tutti questi artifici sembrano mezzucci anche un po’ cervellotici: vista in teatro l’invenzione è tutt’altra cosa, perché la grande capacità di Znaniecki è di amalgamare il tutto, musica, canto, drammaturgia, danza, scene, costumi, luci, in coerente materia – in emozione fiammeggiante e appassionata.

Evgenij Onegin di Znaniecki

Accanto al regista, grande protagonista naturalmente è il direttore texano John Axelrod che guida con grande perizia e ispirazione l’attenta e pronta Orchestra del San Carlo: render così bene la musica di Čajkovskij, restituire non il sentimento ma la sua perdita, l’ineffabile inesausta malinconia delle sue melodie non è da tutti, perché il semplicismo, il pauperismo estatico è sempre in agguato. Così, evidentemente non è stato qui a Napoli, e alla professionalità dell’Orchestra ha corrisposto quella del Coro e del Corpo di Ballo, l’uno e l’altro di grande storica tradizione, al San Carlo, di volta in volta rinverdita e rinvigorita. Il cast dei cantanti, tutti ottimi elementi – dall’impetuoso Onegin di Igor Golovatenko, all’estatico Lenskij di Marius Brenciu, alla vivace Ol’ga di Ketevan Kemoklidze, al molto apprezzato Gremin di Dmitrj Beloselskij – trova centro e coronamento in Carmela Remigio. La soprano, stimata interprete mozartiana, riesce a trovare il tono giusto per dar vita ad una Tat’jana che è sempre pienamente credibile, da entusiasta adolescente, da giovane donna inquieta, da determinata principessa, in un arco di tempo lungo una vita, sempre perfettamente espressiva, attenta, sicura. A lei, come a tutto il cast, il pubblico napoletano ha tributato giusti e lunghi applausi.

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