Corposo e statico Falstaff ronconiano

[rating=3] Un Falstaff corposo quello del Teatro dell’Opera di Firenze per la regia di Luca Ronconi, in scena fino al 12 dicembre, in coproduzione con la Fondazione Teatro Petruzzelli di Bari, che ha visto il debutto lo scorso anno.

L’ultima opera di Giuseppe Verdi, andata in scena nel 1893 con grande successo, a distanza di cinque anni dal primo colloquio milanese in cui Boito aveva convinto il compositore a dedicarsi ad un progetto di opera comica, per tanti anni vagheggiato, prende spunto dalla commedia shakespeariana Le allegre comari di Windsor, e dal personaggio già noto nella tragedia dell’Enrico IV, ovvero sir John Falstaff. L’opera, emblema di un supremo e felice virtuosismo compositivo, vede abbandonare in modo definitivo i numeri chiusi adottati da Verdi fino ad Aida, a favore del declamato melodico, pur continuando a poggiare su due antiche colonne portanti: la forma sonata e la fuga. Dunque un vero e proprio unicum lirico, che vede l’ultimo fortunato sforzo di rinnovamento del cigno di Busseto.

Non convince però la regia di Luca Ronconi, che colloca la vicenda in una dimensione da lui stesso definita atemporale, un connubio tra la minimalista e asettica scenografia di Tiziano Santi, e le immobili luci di A.J. Weissbard. Tutto si mostra estremamente statico e rigido, a partire dalla possente figura di Ambrogio Maestri nei panni di Falstaff, costretto nell’ultima scena in un ingombrante letto con una scomoda vestaglia che ha bloccato libertà e fluidità di movimenti, imprigionando l’azione in movenze impacciate e grottesche, che hanno snaturato la dinamicità della famosa scena nel parco di Windsor.

Falstaff regia di Ronconi

Unica nota di colore le spettacolari macchine metafisiche e surreali distinte per genere tra i “furbi” velocipedi delle gaie comari ed il trattore-locomotiva “ottuso” del mondo maschile. Uno scontro dunque sui generis messo in luce anche dai costumi di Maurizio Millenotti, che così atemporali non sono, alludendo con busti e corsetti agli anni a cavallo di Otto e Novecento, emblematici nella lotta di sesso.

Vivamente evocativo infine il maestoso albero dell’ultimo atto, che ha catalizzato tutte le attenzioni, un ricordo dello spettacolo curato nel 1993 per Salisburgo, dove i rami irrompevano dalla finestra e nota comune era la dimensione di sogno.

Falstaff

Direzione dai risvolti malinconici per Zubin Mehta, dove i tempi si fanno di inusitata lentezza ed eleganza, mentre un’ironia più sottile sostituisce la grassa risata. Corposo e d’esperienza il Falstaff di Ambrogio Maestri, la cui voce risente a tratti del tempo, e la cui possenza stride nelle poco felici scelte registiche. Fresca e innocente la Nannetta di Ekaterina Sadovnikova, perfettamente in linea con l’innamorata esuberanza vocale e di scena del Fenton di Yijie Shi; ironiche e loquaci quanto basta le comari Alice e Meg di Eva Mei e Laura Polverelli, sostenute da una comica e grave Elena Zilio nei panni di Mrs. Quickly. Convincono vocalmente poco Bardolfo e Pistola di Gianluca Sorrentino e Mario Luperi; ben delineato Ford di Roberto de Candia.

Prova egregia per l’Orchestra e il Coro del Maggio Musicale Fiorentino. E giacché “Tutto nel mondo è burla”, applausi sinceri per la prima fiorentina.

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