Il flauto magico: leggerezza e allegria di una fiaba senza tempo

[rating=4] Il “Flauto Magico secondo l’orchestra di Piazza Vittorio” ha superato le 150 repliche, ma sembra conservare la vivacità di un work in progress che si rinnova e meraviglia gli stessi interpreti.

Die Zauberflöte è uno degli ultimi lavori di Mozart (1791) ed è in forma di Singspiel, una forma popolare tedesca che includeva accanto al canto anche dialoghi parlati. E’ una fiaba, il viaggio iniziatico del giovane Tamino, un racconto intriso di elementi cari all’illuminismo come l’aspirazione dell’uomo alla saggezza e al rapporto armonico con la natura.

In teatro il sipario è aperto, l’allestimento degli strumenti sul palco è la scenografia, in alto uno schermo che trasformerà in visioni colorate ciò che si racconta. Un maestro in Frac entra e mostra al pubblico l’ingombrante coda da tacchino che fuoriesce da dietro il vestito, gli orchestrali si accomodano, anche loro mostrano qualche eccentrico particolare. Il flauto magico ha inizio.

L’opera di Mozart viene qui assorbita e riproposta come un mito che accomuna culture lontane, la contrapposizione tra bene e male, le prove per conquistare libertà e felicità sono topoi semplici dei racconti che l’umanità da sempre tramanda. Ogni musicista porta la sua cultura, la sua lingua: arabo, inglese, spagnolo, tedesco, portoghese, wolof, italiano. Accanto agli elementi da orchestra canonica ci sono gli strumenti delle diverse tradizioni: tablas, oud, djembé, flauti andini, chitarre, archi, ottoni e percussioni. L’orchestra dichiara di aver assegnato gli stessi personaggi secondo somiglianze caratteriali ed affinità esperienziali con gli interpreti. Con la semplicità del gioco i musicisti vestono progressivamente i panni dei personaggi dell’opera mozartiana.

Flauto Magico secondo l’orchestra di Piazza Vittorio_ph Gianni Fiorito

Questo ensemble porta in scena la verità e il fascino di un mondo senza tempo, il gioco di commistione tra generi e melodie crea un piacevole senso di spaesamento. Un intro da “sceneggiata napoletana” confluisce nel canto del muezzin, mentre ouverture pompose si concludono con suonerie da telefonino. Immersi in questa esperienza uditiva e visiva (proiezioni di acquerelli in movimento accompagnano tutta l’opera) si dimenticano etichette come reggae, pop, jazz perché tutto si concilia e tutto si trasforma. Potremmo definirlo uno spettacolo ibrido, una via di mezzo fra il teatro musicale e un’opera in forma di concerto, la regia è teatrale ma tanto è affidato all’estro dei musicisti. La bellezza sta proprio nella difficoltà di de-finizione che non si presta a schemi e categorizzazioni di comodo. La leggerezza e l’allegria di questa rivisitazione, tanto diversa quanto fedele nei principi all’originale, ne fanno un inno gioioso e coinvolgente. Bisogna assistervi senza preconcetti o aspettative, come bambini alle prese con una favola.

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