
[rating=4] Approcciare la figura di Alban Berg e, in particolare, la sua seconda e ultima opera Lulu significa gettare un significativo sguardo sui primi decenni del XX secolo. L’impressione suscitata nel compositore, al principio del Novecento, dai due drammi Der Erdgeist (Spirito della terra) e Die Büchse der Pandora (Vaso di Pandora) di Frank Wedekind germogliò nella sua mente negli anni seguenti, culminando, durante l’agonia della Repubblica di Weimar, nella stesura del libretto e nella lavorazione della partitura fino alla morte, nel 1935, quando già il potere nazista teneva in scacco l’intera Germania. Il decesso non aveva consentito a Berg di ultimare l’orchestrazione dell’opera che venne eseguita, per un quarantennio, nella versione in due atti (quelli ufficialmente musicati dall’autore). Con la scomparsa, nel 1976, della vedova Berg, che si era tenacemente opposta al completamento di Lulu, Friedrich Cerha poté analizzare il manoscritto con le correzioni e le numerose indicazioni autografe.
Nel 1979, a Parigi, venne eseguito per la prima volta anche il terzo atto, ultimato grazie al lavoro di Cerha. Si chiudeva così un lungo e appassionante capitolo che aveva incuriosito i musicologi di tutto il mondo. Con la pesante incombenza passata ma con una nuova consapevolezza storica, il compositore e direttore Eberhard Kloke, interpellato dal teatro reale di Copenaghen, ha rielaborato quanto lasciato da Berg, licenziando, nel 2010, una nuova versione dell’opera.
La decisione di alleggerire la strumentazione favorisce espedienti quali l’introduzione della fisarmonica, capace di rendere più pastoso il suono della compagine. Rispetto allo stile berghiano, Kloke sceglie una cesura ben evidente che, nel veicolare una personale lettura, può non mettere tutti d’accordo. Lo sfoltimento è deciso dal curatore il quale attua una sostanziale rivisitazione di Lulu, discostandosi dalle indicazioni originali: è un coraggioso tentativo d’impasto di stili differenti, con lo sguardo rivolto alle avventure musicali novecentesche. Alla Fondazione Haydn di Bolzano e Trento e al suo direttore artistico Matthias Lošek vanno i plausi per la decisione, apparentemente rischiosa ma decisamente perspicace, di proporre al pubblico i risvolti musicali temporalmente a noi più vicini: il progetto OPER.A 20.21 segna una svolta nei cartelloni lirici di Trento e Bolzano che, da qui in avanti, ospiteranno una serie di titoli concepiti tra Novecento e primi anni duemila, con alcune nuove commissioni. Per questa Lulu la risposta da parte degli spettatori è parsa assai sostenuta e partecipe, tanto da far ben sperare per il prosieguo dell’iniziativa. A sottolineare il respiro internazionale vi è anche l’allestimento proveniente dalla Welsh National Opera.
La messinscena coglie innumerevoli spunti offerti dal libretto di Berg: dagli aspetti granguignoleschi, al crudele cinismo della società, la regia di David Pountney evidenzia il mondo malato in cui si aggirano i personaggi storditi dalle convenzioni. Il messaggio dirompente, ricondotto da Wedekind alla fisicità e alle pulsioni represse suscitate da Lulu, esplode nell’impattante idea scenica di Johan Engels. La sua concezione narrativa valorizza suggestioni visive predominanti che raccontano l’angosciante incedere dell’opera, ambientata in un’ampia gabbia nella quale s’innalza, al centro, un’imponente scala tortile.
La scena ospita l’ascesa e la caduta della protagonista tra simbologie di voluttuoso decadentismo, trofei d’amore mercenario e nudi rappresentativi d’amore e morte. Marie-Jeanne Lecca immagina costumi vivaci e sovente ammiccanti all’aspetto circense, con maschere animalesche, mentre Mark Jonathan dimostra l’importanza di un’illuminazione modellata con cura.
La forza espressiva della svedese Marie Arnet esce dirompente al cospetto della multiforme Lulu. Il soprano ha ottima tempra attoriale e denota grande disinvoltura, specie al cospetto di un ruolo tanto esigente. Il medesimo carattere si riscontra nella prestazione vocale che sottolinea le esigenze musicali grazie ad uno strumento ampiamente esteso e al fraseggio ben calibrato. Al pari valida è la prova di Paul Carey Jones impegnato come Dr. Schön e Jack the Ripper. Il timbro baritonale virile e il fiero portamento scenico gli consentono di tratteggiare con compiutezza entrambi i personaggi. Alwa il sognatore, definito con delicatezza dalla mano di Berg, trova nel tenore Johnny van Hal un interprete accorato, fedele, tanto nei sentimenti quanto nelle delusioni, all’ideale femminile veicolato da Lulu. Natascha Petrinsky sfrutta il colore brunito della propria corda mezzosopranile per dar credito ai turbamenti amorosi della sfuggente Contessa Geschwitz.
Positive anche le performance del tenore Mark Le Brocq, nei panni del Pittore e del Negro, di Jurgita Adamonyte, nelle vesti della Guardarobiera e dello Studente, e del basso tedesco Bernd Hofmann, enigmatico Schigolch e Domatore. Valido anche il resto del cast: Duccio Dal Monte, Direttore di Teatro e Banchiere, Alan Oke, Principe, Domestico e Marchese, Steven Scheschareg, Atleta, Roland Selva, Primario, Keith Harris, Giornalista, Johannes Held, Domestico, Rebecca Afonwy-Jones, Arredatrice, Anna Lucia Nardi, Madre, Mary-Jean O’Doherty, Quindicenne, Carlo-Emanuele Esposito, Commissario di polizia, David Thaler, Clown, Andrea Deanesi, Macchinista, Stefano Ferrario, Violinista e Benjamin McQuade, Pianista.
Superlativa la prova dell’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento, compagine sempre più affiatata e predisposta al repertorio e sinfonico e operistico.
La guida di Anthony Negus, direttore a lungo occupato presso la Welsh National Opera, sprigiona l’intera sua maturità al cospetto di una partitura intrigante e intricata. Negus ha sempre affrontato gli autori d’area tedesca, a cavallo tra Otto e Novecento: questa predisposizione si riscontra nella concertazione sfumata e aderente al canto dei solisti. Il pubblico presente, richiamato dalla rarità dell’opera, ha seguito lo spettacolo con grande attenzione, ringraziando artisti e direttore, al termine, con vibranti applausi.