
Proseguono le “inaugurazioni” della nuova Sala Zubin Mehta di Firenze con un’opera inno di speranza, il Fidelio di Ludwig van Beethoven, per la regia di Matthias Hartmann e la direzione dello stesso Zubin Mehta.
L’unica opera scritta dal Titano della musica, ebbe una lunga gestazione di ben undici anni: la prima versione del 1805, messa in scena con il titolo Leonore. Leonore oder die eheliche Liebe si rivelò un colossale insuccesso. Dopo la rivisitazione della seconda versione dell’anno successivo, sempre con esiti nefasti, dovremo aspettare l’ultima versione del 1814 per assistere al tanto agognato successo. «Di tutte le mie creature, il Fidelio è quella la cui nascita mi è costata i più aspri dolori, quella che mi ha procurato i maggiori dispiaceri. Per questo è anche la più cara; su tutte le altre mie opere, la considero degna di essere conservata e utilizzata per la scienza dell’arte» (Ludwig van Beethoven).

Il contesto teatrale antecedente del Fidelio è quello della “comédie larmoyante”, per usare le parole di Diderot, e la commedia borghese, con tutte le loro componenti tenere, patetiche ed edificanti: l’opera nella sua ultima e definitiva versione mette a nudo il corposo nucleo drammatico per esprimere tutta la sua energia, quella tensione utopica verso una suprema speranza. Tanto viene attinto anche dalla Pièce à sauvatage, a cui si legano le precedenti opere di Luigi Cherubini come la Lodoïska e Les deux Journées, ma anche gli ideali illuministici che vedono scontrarsi le tenebre con la luce in un’opera quale lo Zauberflöte di Mozart.
La regia di Matthias Hartmann, come un acrobata in equilibrio precario, riesce a sopperire alla mancanza di spazio dettato dal mancato completamento della buca orchestrale dando vita ad un allestimento essenziale, dove i pochi elementi sulla scena vengono utilizzati in modo accorto per una buona resa finale. È il caso della corda tesa che riempie la prima scena, dove Marcellina è impegnata a stendere i panni, per poi immaginarsi nella “familiare intimità” carica di speranza ed “infinita voluttà” dove un lenzuolo si trasforma nella sospirata residenza d’amore. Anche le pedane mobili con teli su cui sono riprodotte i disegni delle Carceri di Giovanni Battista Piranesi, disegni poi ripresi negli abiti dei protagonisti, scorrono sulla scena a rappresentare ora le carceri, ora possibili aperture, utilizzate a riprese ora statiche ora in movimento. Infine le stesse scale del palco, diventano la discesa nei sotterranei.

Davvero un ottimo cast quello presentato, a partire dall’indiscussa protagonista Lise Davidsen, soprano norvegese di formazione wagneriana dalla voce impressionante per potenza e qualità timbrica, dal colore brillante e dalla statura imponente, sia vocalmente che fisicamente, perfetta nella parte en travesti e ad incorporare tutta la forza etica dell’amore intrinseco nella figura di Leonore e nella sua lotta per la libertà. Buona prova anche per Klaus Florian Vogt, anch’egli esperto nei ruoli wagneriani: un Florestan tormentato e provato, fin dal suo ingresso nel secondo atto. Realistico ed espressivo il Rocco di Franz-Josef Selig, personaggio dalla grande umanità; incisiva la vocalità di Tomasz Konieczny, un Don Pizarro spietato nell’asprezza del timbro e dalla malvagità metafisica. Candida e sincera sia per interpretazione che per morbidezza vocale la Marcellina di Francesca Aspromonte fin dalla tenerezza liederistica della sua prima aria. Altrettanto gradevole Luca Bernard nel ruolo di Jaquino dall’affettuosa simpatia e dal delicato umorismo. Ottima interpretazione infine per Birger Radde, un Don Fernando vocalmente signorile ed elegante.

Peccato per la caduta di stile finale, registica e costumistica, che ha voluto la pièce à sauvatage da parte di un ministro venale, proteso più all’immagine che al contenuto, con il suo selfie in compagnia dei protagonisti e dei poveri derelitti prigionieri, che vengono costretti in fin di vita davanti all’obiettivo per il flash finale. Altrettanto gli ultimi abiti scelti da Sophie Leypold per la componente femminile del coro, improvvisamente sgargianti e moderni, che infiocchettano ed imbellettano senza un motivo plausibile la folla. Il tutto poco si addice all’anelito assoluto carico di messaggi etici dell’opera beethoveniana.
Fortunatamente l’Orchestra del Maggio Musicale continua a seguire fedelmente la sicura bacchetta di Zubin Mehta, che dirige con padronanza e fermezza l’intera opera, con i giusti colori e la corretta tensione espressiva: mirabile l’esecuzione dell’ouverture Leonora n.3, sintesi sinfonica del percorso dal buio alla luce. Fino al grande rito finale, luminosa apoteosi ed epica celebrazione dei significati etici dell’intera opera. Un anelito di speranza che fa bene agli animi. Lunghi e meritati applausi per tutti.