Figli di un brutto dio, uno spaccato di realtà

[rating=3] Figli di un brutto dio rappresenta uno spaccato della realtà contemporanea impersonando alcuni importanti temi della nostra era della crisi: l’attesa di un futuro migliore, l’attesa dell’occasione della vita, la celebrità, il successo, il denaro, l’importanza dell’immagine di sé come valori. I due autori, registi ed attori unici sulla scena, dichiarano esplicitamente di essersi ispirati al romanzo “Uomini e topi” di Steinbeck. Si tratta di un romanzo del 1937, ambientato nel 1929, in cui i due protagonisti si guadagnano faticosamente la vita sognando di possedere un giorno una casetta tutta per loro.

Lo spettacolo vede l’avvicendarsi di due narrazioni che scorrono in parallelo. Da una parte una coppia di poveracci, liberamente ispirata a Steinbeck, che ci viene presentata mentre, alla fermata di un autobus, vive l’attesa non solo del mezzo pubblico, ma anche quella concreta e materiale del raggiungimento di un migliore tenore di vita. Dall’altra i loro doppi: un ragazzo che ripone nell’entrare a far parte del reality televisivo Figli di un brutto dio tutte le proprie aspettative e il conduttore televisivo, umano ma senza scrupoli, che gli offre l’occasione irripetibile per realizzare il suo sogno. Due coppie più una, in realtà, dato che il ragazzo scelto per la nuova edizione del reality, ha un gemello che rimane nell’ombra fino all’ultimo, ma che costituisce l’epicentro del dramma. Infatti, non appena il conduttore televisivo scopre che questo ha solo tre mesi di vita, si trova costretto a ritirare l’offerta e a rinunciare, anche lui, a un soggetto su cui aveva molto puntato. Queste sono le regole e cambiarle è inammissibile. Per rendere possibile la vita reality diventa necessario trovare una soluzione correggendo quella reale. Anche se ne va dell’esistenza del fratello?

La scena si apre con la prima coppia. Alla fermata dell’autobus i due personaggi si scambiano battute comiche, mentre rovistano tra la spazzatura scegliendo tra cosa può tornare utile e cosa no. La sceneggiatura procede per frammenti giustapposti, intervallati da intermezzi audiovideo che proiettano primi piani di volti celebri della società televisiva. Si stabilisce dunque un immediato parallelismo di spazi e tempi, per cui l’avvicendarsi cronologico della rappresentazione non è importante, perché il tempo è quello dell’eterno presente, fuggevole e illusorio. La scenografia è ridotta al minimo, pochi elementi essenziali che caratterizzano il contesto. Sono i personaggi, i loro movimenti, i loro abiti, le loro intonazioni a costruire gli spazi della scena. La recitazione e i registri linguistici utilizzati, naturali e dalla mimica e gestualità molto forti, rivela, se ce ne fosse bisogno, l’eccellenza degli attori. Il risultato è uno spettacolo energico, che propone l’esperienza di tutta la scala di emozioni tipica del tragicomico: diverte e distende, ma alla fine sgomenta.

Figli di un brutto dio_copyright Giuseppe Carbone

Figli di un brutto dio è “nel metodo un tentativo di scrittura scenica integrale a due. Sono cioè due attori che, nel farsi autori/interpreti di un pezzo di teatro, si concedono una maggiore libertà/responsabilità, e nello stesso tempo si obbligano al continuo confronto con un “altro” col quale dividere, all’interno della creazione scenica, ogni passaggio.” E forse proprio in questa mancanza di direzione esterna può insinuarsi una debolezza. L’indubbio lavoro sul testo e sull’interpretazione rischia di essere svigorito dai contrappunti di scena che tendono a disorientare lo spettatore, seppure per poco. Con il risultato che non è semplice e immediato cogliere lo sviluppo della vicenda, soprattutto giunti al momento finale dell’agnizione.

Nonostante questa difficoltà, lo spettacolo è di effetto e funzionale alla riflessione circa questioni esistenziali urgenti per la nostra società come: il legame tra realtà e finzione, la delusione delle proprie aspettative di vita, la ricerca ossessiva del successo come unica via per la realizzazione.

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