Fuochi sulla collina. L’omaggio ad Ivan Graziani di Andrea Scanzi

Andrea Scanzi e il figlio del musicista, Filippo Graziani, ripercorrono la carriera di Ivan Graziani

“Suonando la chitarra, sia che si tratti dell’elettrica che dell’acustica, c’è chi accompagna e chi rifinisce: Ivan univa le due cose in maniera perfetta“. (Alberto Radius)

Nella penombra di un locale si intravede un tavolino, due sedie e una bottiglia di vino rosso. Qualche lampada e dei quadri appoggiati a terra. Due uomini si ritrovano per bere e per ricordare l’artista che ha dipinto quelle tele. E quando non bastano le parole e gli aneddoti, uno dei due tira fuori la chitarra e comincia a cantare, le stesse canzoni di quel pittore che in realtà è anche musicista e, forse, poeta.

L’artista eclettico è Ivan Graziani, gli uomini che si incontrano al bar sono Andrea Scanzi e Filippo Graziani, suo figlio. E iniziano a ricordare. Se c’è una parola che fotografa Graziani è: unicità. Unica è la sua origine geografica, Teramo, lontana dalle accreditate scuole cantautorali. Unica è la sua voce, che come amava definirla lui stesso, è quella di una “bimba perversa”. Unico infine il suo look con quegli occhiali rossi esageratamente grandi, negli anni del glamour imperante. E se bisogna cercare un’altra parola che ne disegna i contorni nervosi allora eccola, è “libertà”. Assoluta. E se per averla bisogna dire no, che no sia.

Ecco allora il no a Mogol che lo vorrebbe trasformare in un nuovo Battisti; quello a Mina e quello alla PFM. Eccolo decidere di non schierarsi politicamente perché “a me non frega niente della politica, io racconto il sociale”.

Irriverente, sovversivo con la sua ironia, rovescia ogni cliché. Come nella splendida “Fuoco sulla collina”, in cui un sedicenne sogna di essere in un giardino e di scorgere in lontananza i fuochi di una battaglia sulla collina. Vorrebbe andare ma un uomo voltato di spalle glielo impedisce. E quando il giovane gli svela il motivo della sua ansia di correre su quella cima; l’uomo lo apostrofa con un laconico “Illuso, romantico e fesso”, dicendogli che quelli sono soltanto i fari dei trattori. A guardare bene quindi Graziani si schiera, a modo suo, contro le false rivoluzioni e i “cattivi maestri” che sul finire degli anni Settanta imperavano.

Lo spettacolo alterna la narrazione di Scanzi, alle interpretazioni di Filippo,che insieme ne ripercorrono la carriera mescolando i brani più noti come (Lugano addio, Taglia la testa al gallo, Monna Lisa, Pigro), a quelli meno famosi, come i ritratti stralunati (Io che c’entro), gli squarci di provincia (Scappo di casa), gli scherzi  (Motocross), la  ritrattistica femminile (Paolina,) e le incursioni noir (Fango). E mentre Scanzi con maestria nocciola i suoi ricordi, scegliendo con cura le parole, misurando le pause e alternando momenti lirici e goliardici; Filippo Graziani interviene con la sua chitarra e, con un tono tra il ruvido e lo scanzonato, suona i pezzi del padre.

Ed ecco venire fuori le “istantanee” scattate di Graziani, capace come pochi di fare un ritratto, partendo da un dettaglio come i capelli fermi di Marta oppure i fianchi da bambina della ladra di Motocross. Perché in fondo è vero “non è un delitto essere il migliore, vedere dove gli altri non san vedere, fiutare il vento come un animale e avere un’anima senza frontiere”.