
Seduta al centro di un diaframma di ring-light – quelle tipiche dei video provini tanto odiati dagli artisti – un’attrice (Antonella Carone) guarda in loop un suo selftape. Dietro di lei, un lungo telo bianco sborda oltre i confini della verticalità, si spinge verso il pubblico trasformandosi da schermo cinematografico in tappeto: è il palcoscenico su cui si articolerà l’arringa.
Riconoscimento e identità: sono questi i due temi caleidoscopici sui quali si articola il lavoro drammaturgico di Eliana Rotella “88 Frequenze”, messo in scena da Giulia Sangiorgio per i collettivi Corpora/UNO&Trio. Immergendosi nella complessa vicenda biografica di Hedy Lamarr, icona glamour dell’Hollywood della prima metà del Novecento, lo spettacolo ragiona sulle logiche di genere e di potere all’interno di una società maschilista.
Le piste che guidano il racconto sono due: da un lato la carriera artistica dell’attrice hollywoodiana, dall’altro il suo meno noto, ma forse più significativo, contributo scientifico. Desiderosa di prendere parte alla lotta contro il nazismo, l’interprete di origine austriaca sfruttò le proprie conoscenze di ingegneria per sviluppare un modello di frequenze radio – da cui il titolo dello spettacolo – per la codifica di informazioni. L’invenzione fu di portata epocale e rappresentò la base per la costruzione di strumenti tecnologici moderni come GPS, Bluetooth, Wifi. Eppure, il merito di Lamarr fu ignorato e la maternità del progetto non le venne riconosciuta. Il processo di cancellazione mediatica dei meriti femminili è, d’altronde, pratica ricorrente nell’(ancora) dominante rich-MEN’s world.

Per la messinscena, le artiste scelgono di attraversare la storia di Lamarr senza però sovrapporre il proprio io biografico a quello della star cinematografica. A inizio spettacolo, Antonella Carone chiarisce immediatamente che non vi sarà alcuna ambizione all’immedesimazione: si parlerà di Lamarr ma non per Lamarr, si tratteggerà un commentario in terza persona della sua vita in modo che il ritratto possa parlare da sé. Il monologo che ne risulta è un’arringa di assoluta lucidità che espone chiaramente la natura sistemica dei torti con cui l’attrice dovette fare i conti.
Il ritmo della scrittura non segue un arco narrativo. È piuttosto un battito irregolare in cui si alternano momenti analitici, altri esplosivi e altri ancora di sconforto. A rappresentare scenicamente la frammentarietà del racconto sono anche le proiezioni in presa diretta sul telo del fondo. La telecamera? Un semplice smartphone continuamente spostato da un supporto all’altro: simboleggia, forse, lo sguardo esterno, tanto parziale quanto riduttivo – quel male-gaze sintomatico di una società in cui la parità di genere è ancora incompiuta. Solo il pubblico in sala può vedere oltre i momenti di ripresa e guardare l’attrice in tutti i suoi tentennamenti, i suoi scoraggiamenti, i suoi cedimenti.

Eppure, l’emozione non invade la coerenza logica della denuncia e non sporca la rivendicazione fortemente politica portata avanti. “Perché lei? Perché io?”, si domanda l’attrice in scena. Di fronte all’ostracismo, allo sminuimento e al pregiudizio di chi la circonda, Lamarr non può molto: il singolo non ha la possibilità di sovvertire in un unico momento, dallo ieri all’oggi, la famelica struttura gerarchica in cui è inserito. Ciò che può fare è portare ostinatamente avanti la propria battaglia, ignorare, sorridere – tendendo i muscoli della bocca fino a squarciare il volto – e andare oltre. È l’immagine potente di una resilienza fondata sulla fermezza interiore, su un lavoro di negoziazione con la realtà e di equilibrismo tra le ingiustizie.
Il nodo centrale che lo spettacolo porta a galla è il più subdolo degli abusi: l’ammutolimento. Non è forse un caso che uno dei più recenti manifesti divulgativi del femminismo si intitoli «Stai zitta» (Murga, 2021): l’intimidazione al silenzio ridimensiona, pone in secondo piano e, infine, cancella le voci che mettono in discussione lo status quo. Una volta messe in ombra, la loro battaglia non può neppure iniziare: loro, ormai, neppure esistono.