
Risuona chiara e forte, la voce d’un Eduardo non ancor vecchio – la registrazione è del 1954, prima d’una Miseria e nobiltà milanese con Luca esordiente come Peppeniello – nella sala del Teatro Mercadante, a traghettare il pubblico napoletano verso il “dialetto antico” di Una delle ultime sere di Carnovale, per la regia di Beppe Navello; e in effetti, benché possa apparire inconsueta, a taluni addirittura bizzarra, la scelta di recitare nella lingua di Goldoni – e passi – senza nemmeno l’ausilio dei sovratitoli cui il pubblico è ormai avvezzo, è tuttavia da considerare come basti adeguarsi al saggio consiglio d’Eduardo per passar la prova non solo indenni, ma traendo il massimo piacere da questa commedia dall’aria leggera e mite come un anticipo di primavera o, meglio, un ultimo scampolo di sole ad ottobre inoltrato, prima che venga l’inverno.
Occorre lasciarsi andare, allora, non tentare di comprendere fino in fondo un dialetto che alle nostre orecchie partenopee suona come una lingua straniera, ma assecondare la musica, lasciare che tutto lo sforzo di far comprendere l’essenziale lo faccian loro, i giovani attori della compagnia, colla scelta delle parole, e colla robustezza dei sentimenti, per lasciare arrivare fino a noi il dolceamaro che è racchiuso al fondo di questa commedia, scritta più di duecentocinquant’anni fa, ma che conserva intatta freschezza e fragranza d’un’insanabile irrequietezza, d’una serena inquietudine – non meravigli l’ossimoro – che la convenzione del lieto fine riesce solo in parte a coprire ma non del tutto a vincere. Eppure l’autore la scrisse all’età di cinquantacinque anni – una bella età per l’epoca – identificandosi invece dichiaratamente in un giovanotto di belle speranze, come avesse, quell’attempato autore, ancora un mondo intero da esplorare e una stagione acerba davanti a sé: soggettività e relatività del tempo.
Così la commedia – metafora, allegoria che ha bisogno di spiegazione – scritta per congedarsi dal pubblico di Venezia, in partenza per la Francia per lo spazio almeno di due anni, scorre via veloce tra le ciacole e le schermaglie amorose di questa compagnia di guitti trasformata in società di Tessitori, tra i due blocchi del gioco della Meneghella e del pranzo coi ravioli ed il cappone, occasioni entrambe per sedersi a tavola secondo convenienze e strategie. Fuor di metafora, allora, detto che dietro le sembianze del giovane Sior Anzoletto, disegnatore di stoffe di successo, in procinto di partire per la Moscovia, si celi in chiaro modo l’Autore, è probabile che nelle vesti della vecchia ricamatrice Madama Gatteau si nasconda nientemeno che il vecchio modo di far commedia, quello delle maschere in scena ad imbastir improvvisazioni e recami, invaghitasi del protagonista pur se i suoi dessegni xè d’un gusto diverso dai so recami.
Per la stessa via la giovane Siora Domenica, figlia del testor Sior Zamaria, datore di lavoro – e dunque impresario – del protagonista, altri non sarebbe che la vagheggiata, amata, sofferta riforma del teatro, del tranche de vie dei borghesi e dei servi, prima inseguita da Goldoni e poi con sé portata fino in Francia, in cerca di miglior fortuna, certo, ma per ragioni che implicano no solamente i danari, ma anca un pocheto de onor. Perché, alla fine, poi, la favoleggiata Moscovia, mitica e lontana contrada, città invisibile e quasi immaginaria, luogo di tale desiderio da suscitare insieme dolore e struggimento per ciò che si lascia, ma pure eccitazione e frenesia per ciò che sarà, per ciò che potrà essere, altro non è che scommessa, possibilità, opportunità che si cerca di limitare, per dar pace al cuore inquieto, al tempo di due anni: diventa sfida per tentare se una mano italiana possa formar un misto col gusto dei Moscoviti, capace de piaser a le do nazion. A noi, che abitamo l’oggi, è dato sapere sia i veri motivi che spinsero Goldoni a Parigi, sia come andò poi a finire: lui scriverà poi nei Mémoires che “la commedia ebbe assai successo; chiuse l’anno comico 1761, e la serata di martedì grasso fu per me la più brillante, perché la sala risuonava di applausi, tra i quali si sentiva gridare chiaramente: ‘Buon viaggio; tornate; tornate senza fallo’.
Confesso che ero commosso alle lagrime; se n’era andato perché il gusto a Venezia era cambiato, il vento spirava ormai in favore delle fiabe e delle magie di Carlo Gozzi, protagonista di una vera e propria restaurazione culturale che aborriva la modernità e gli ideali etici in nome d’una esaltazione di una tradizione all’epoca già morta e sepolta: si comprende allora l’amarezza di Anzoletto a proposito delle critiche al suo lavoro: se saranno sul serio critiche, mandatemele fino in Moscovia, se saranno satire, sior no: za el responder no serve a gnente; perché se gh’avè torto, fè pezo a parlar; e se gh’avè rason, o presto, o tardi, el mondo ve la farà. Purtroppo sappiamo pure che dalla Moscovia, da Parigi, cioè, Goldoni non tornerà mai, i due anni diventeranno quasi trenta, troverà il mondo teatrale francese forse più arretrato, in quel momento, di quello di Venezia, saranno incomprensioni, amarezze, qualche successo.
Ma Una delle ultime sere di Carnovale continuerà ad esser rappresentata, perché nonostante l’allegoria, i personaggi che vengon fuori, tuttavia, non sono figurini stilizzati, fantasmi evanescenti che rimandano solo ad altro: la commedia risulta godibilissima pur senza tener conto di questo senso ulteriore, sotto nitida e trasparente vernice dell’allegria del Carnovale s’intravede appena la tinta un po’ più opaca d’una qualche malinconia, ma nulla più.
Navello – con la consapevole complicità d’una Compagnia di dodici giovani e lo straordinario contributo d’un’attrice francese come Geneviève Rey-Penchenat che ci restituisce una Madame Gatteau di gran finezza – mette correttamente in scena Goldoni, con cognizione di causa e pur con qualche incursione nel tempo dei posteri – che poi sarebbe il nostro – di cui magari non si sentiva estrema necessità. È d’obbligo, a questo punto, ricordare almeno qualcuno di questi attori – tutti molto bravi – cui si deve buona parte del successo di questo allestimento: la Siora Domenica vivace e astuta di Maria Alberta Navello, il sereno e deciso Sior Anzoletto di Alberto Onofrietti, il Sior Zamaria di Antonio Sarasso, al tempo stesso mite ed autorevole, Daria-Pascal Attolini nei panni d’una materna e maliziosa Siora Marta.
Così, servono a meraviglia sia la vicenda sia la metafora, i grandi drappi, i damaschi, le sete, che a mo’ di preziosi sipari segnano il succedersi delle scene, ricordandoci sempre che siamo in casa d’un commerciante di stoffe ma che si sta facendo teatro e, al tempo stesso, riportandoci ognora alla metafora che indica quei mercanti, quei disegnatori, quei tessitori come impresari, commediografi, attori; così pure molto belli e singolari i costumi, dovuti, come le scene, alla matita di Luigi Perego, che, pur nell’essenziale e sostanziale aderenza al secolo dei lumi se ne distaccano tuttavia per i colori, o meglio per le sfumature, cangianti e personalizzate per ogni personaggio, come a comporre una singolare sinfonia pittorica e coloristica.
Più convenzionali le vedute di Canaletto che ogni tanto s’alternano sullo sfondo ai tessuti, che ci riportano ad una Venezia un po’ di maniera che avremmo magari preferito lasciare all’immaginazione dello spettatore; sempre meglio, tuttavia, dell’ultima proiezione, che saluta la partenza da Venezia d’Anzoletto e Domenica che vanno incontro al loro destino a Mosca, la famosa foto della nave da crociera che arriva fin quasi a Piazza San Marco, che appartiene alla spudorata e sbravazzata trivialità dell’oggi e che vuol forse alludere, chissà, al fatto che quel passato non è poi così diverso dal presente, incrociandolo continuamente – in uno con il dichiarato parallelo tra la partenza di Goldoni/Anzoletto e la moderna fuga dei cervelli – ma che finisce col diventare trovata forzosa e posticcia, del tutto in contraddizione con la naturalezza leggera e fragile del resto dello spettacolo. Pazienza, non tutte le ciambelle.