Un tram che si chiama desiderio senza eros né thanatos

In scena al Teatro Mercadante di Napoli fino all'11 dicembre

Certo, la luce c’è. Anzi, più d’una. Prima d’ogni altra, la luce nuda, che scava, indaga, la luce immancabile, immarcescibile, incorrotta e incorruttibile, in questo allestimento di Un tram che si chiama desiderio, a Napoli al Teatro Mercadante, si sposta su una piantana che occupa quasi sempre il centro della scena: addirittura al fusto s’aggancia perfino la copertina stesa a mo’ di divisorio per assicurare un minimo di privacy agli occupanti il piccolo appartamento. Il regista Cristián Plana dedica a questa chiara luce della verità – com’è giusto – tutta l’attenzione che merita: a Blanche s’addice, però, di più la penombra dell’incanto che modifica e manipola, per cui s’affretterà, quella fonte immacolata, a coprirla con un grazioso paralume. E così la stessa piantana irraggerà ora solo luce soffusa e calda, morbida e morbosa, luce che nasconde, mistifica, addolcisce come il “dolce” delle bottiglie “leccate, come una gatta selvatica” tutta l’estate. Poi ci sono pure altre luci: quelle – fredde – di fuori, nello stretto pianerottolo condiviso con l’appartamento di Eunice, luci estranee, di un altrove che è il non-lieu dell’assenza identitaria, relazionale e storica, il limbo da cui, portata dal desiderio e dall’annullamento, Blanche è arrivata, il nulla del nonluogo in cui ritornerà, al compimento della parabola sua, da cui vanno e vengono uomini e fantasmi, corpi e anime ostili o amici. Ma, anche, il ricettacolo dello spirito del passato, della tenuta dei bei sogni, ma pure dei morti che rantolano non volendosene andare, dei passati amori e delle passioni degradate: il passato rimpianto e odiato al tempo stesso. E la luce del bagno, occhieggiato sempre dall’uscio malchiuso della tenda, inesplorato – per lo sguardo nostro – regno dell’elaborazione accurata dell’apparire di Blanche, ma pure – forse per questo – luogo dell’acerba lotta tra lei e Stanley, come se lasciare il territorio, quel territorio, all’altro, rappresenti fonte d’inesausta angoscia, forse perché si decide lì, più che altrove, lo scontro e l’intesa tra il sudato realismo di lui e l’azzeccosa magia di lei.

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Le luci di quest’angusto presente – claustrofobico hortus conclusus che il regista provvede a rendere visivamente ristretto e costretto, portando avanti la scena (solo alla fine, in concomitanza con l’esplodere della follia, acquisterà spazio ed aria, quasi a riconoscere al delirio valenza di libertà conquistata), ottenendo un effetto di voluta presbiopia dei personaggi e degli eventi, tagliandola ai lati e in alto, affogando nel nero del fondo buio ogni velleità di respiro – illuminano un presente ordinario malamente rivestito del kitsch delle velletarie aspirazioni piccolo borghesi, nei mobili presi a rate, nella tappezzeria a fiorellini giallarancio, negli abiti stessi che sortiscono esito di colorato e marcato iperealismo e che – comprese le mutande stars and strips di Stanley o il guardinfante di Blanche – più che agli abitanti della New Orleans della metà del secolo che fu, sembrano indizi d’una stracciona cultura degli scarti di qualche contemporanea periferia di megalopoli sudamericana. E pure questo ci può stare, se è vero che un certo modo di guardar quest’opera ha visto, a ragione, il dramma sociale, sintomo e segno d’una insopportabile quanto inarrestabile decadenza, certo, non solo questo, ma sicuramente il tema delle contraddizioni della società prossima all’imbarbarimento è presente. Dunque, perché, nonostante le scene e le luci giuste, nonostante il regista abbia saputo cogliere almeno una, tra le tante legittime possibilità che si possono percorrere, mettendo in scena questo capolavoro del Novecento, perché, dicevo, uscendo dal teatro nell’aria fresca della notte, mi prende un senso d’inappagata insoddisfazione, come se non avessi compreso appieno qualcosa, delle sorti di questa famiglia americana? Davvero può ridursi, il tutto, ad una vicenda di degrado sociale, più o meno comune, più o meno astorica e fondamentalmente neutra?

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Se veramente Un tram che si chiama desiderio è l’irrompere sulla scena, con la stessa irruenza distruttiva d’un accesso di follia, delle pulsioni della vita e della morte, il farsi miracolosamente storia, e storia quotidiana, di quanto di indicibilmente intimo alberga dentro di noi, da una parte eros che s’impregna di sudore e sangue, che si fa desiderio di carne e dall’altra parte thanatos che inesorabilmente stringe e costringe nella sua spirale, e quella stessa carne macera e corrode, devo dire di aver fatto fatica a ritrovar l’uno e l’altro sul palcoscenico del Mercadante, nonostante l’impegno degli attori. Blanche, la sempre ottima Mascia Musy, finisce sbrigativamente e semplicisticamente per esser relegata nel ruolo della zitella dalle innominabili voglie, non trovar di meglio che nascondersi sotto il letto alle sfuriate di Stanley, cedere – di fatto un invito – quasi di buon grado al cognato, dopo essersi negata al povero Mitch – naturalmente dopo che lui ha con forza affermato di non volerla sposare, dando di fatto un senso del tutto diverso al “…è dal primo giorno che ci siamo dati questo appuntamento” di Stanley; la vediamo ancora, Blanche, in atteggiamenti che vorrebbero e dovrebbero esser frutto, certo, dell’alienazione progressiva d’una povera mente, ma che sanno invece riuscir solo grotteschi e, a tratti, perfino ridicoli. Dispiace non ritrovare i tratti della Blanche che conoscevo – e questo in fondo non sarebbe nemmeno importante, se l’alternativa fosse valida, spesso il compito del regista è saper battere inusuali sentieri – ma è come se, pur conservando la lettera di discorsi e situazioni, essa manchi alla fine di nerbo, non riesca, la parola sola, per nulla ad evocare alterità rispetto a se stessa, a ciò che letteralmente dice, non rimandi ad altro, cioè, sterilmente che a se stessa, laddove, invece, tutto dovrebbe significare altro da ciò che è scritto, anzi essere altro la realtà, e la parola invece ingannare, in un continuo ricorrere all’allusività e alla seduzione; così, il gioco erotico – supremo camuffarsi della libido animale – non scatta mai, neppure tra Stanley e Stella. Così pure la fascinazione dell’annullamento, della morte, della distruzione è del tutto assente, se non nel verbo pronunciato: essa si nutre, nella pièce, d’icone e immagini che hanno identica ed equivalente valenza della lettera, trascurarle può diventar peccato mortale: che fine ha fatto la vecchia fioraia, che vende corone per i morti, così spaventosa per Blanche eppure a lei così familiare, sì da farci intendere essere lo stesso Thanatos, la morte stessa in scena? E così pure gli altri: Stanley di Massimiliano Gallo assume, certo per scelta, una modalità recitante a cantilena, forse a significare uno slang a me ignoto, ma che alla lunga irrita e rende poco plausibile e naturale l’espressione, come pure certe sfuriate poco credibili non contribuiscono certo a rendere più realistico il personaggio, anzi. E l’(in)quieta sottomissione di Stella (Giovanna Di Rauso) sembra diventar cotta d’adolescente piuttosto che rivendicazione di desiderio intriso d’erotismo.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Attori
Drammaturgia
Allestimento scenotecnico
Pubblico
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un-tram-che-si-chiama-desiderio-senza-eros-ne-thanatosUN TRAM CHE SI CHIAMA DESIDERIO <br>di Tennessee Williams <br>traduzione Masolino d’Amico <br>regia Cristián Plana <br>con Mascia Musy, Massimiliano Gallo, Giovanna Di Rauso, Antonello Cossia, Mario Autore, Antonio De Rosa, Antonella Romano <br>scene e costumi Angela Gaviraghi <br>disegno luci Cesare Accetta <br>produzione Teatro Stabile di Napoli, Fundación Teatro a Mil – Cile <br>Napoli, Teatro Mercadante, 30 novembre 2016 <br>in scena da 30 novembre al 11 dicembre 2016