La tenera incoerenza delle Cose che so essere vere. Anche se sbagliate

Valerio Binasco mette in scena al Teatro Bellini un dramma di Andrew Bovell. Con Giuliana De Sio e Giordana Faggiano.

Cose che so essere vere © Virginia Mingolla
Cose che so essere vere © Virginia Mingolla

Le cose sono, a volte, un po’ più complesse del semplice bianco e nero, possiedono, le cose, tutte le sfumature e tutte le possibilità e tutte le contraddizioni del vivere reale e, a volte, di questa incredibile ma vitale incoerenza, tenta, qualche talentuoso uomo di teatro, di darcene, a noi che sediamo tranquilli giù in platea, almeno una qualche parvenza, un assaggio, una raffigurazione. Ci si prova, questa volta, qui al Teatro Bellini di Napoli, Andrew Bovell, sceneggiatore e drammaturgo australiano di fama internazionale, esploratore delle dinamiche complesse che caratterizzano le relazioni tra le persone, i suoi drammi, dalla struttura provocatoriamente semplice in apparenza, nascondono spesso molto più di quanto non mostrino a prima vista.

Ne sa qualcosa, credo, quell’esperto uomo di teatro che è Valerio Binasco, di cui ben conosciamo sensibilità e cultura: quando scelse di rappresentare questa sua creatura, Things I Know to Be True, tradotto in italiano da Micol Jalla come Cose che so essere vere, immaginò, leggendone il testo, tratteggiasse, quella pièce, il paradigmatico ritratto di una famiglia disfunzionale, le vicende di un anno particolare fotografate dall’Autore come il malinconico e doloroso girare a vuoto nell’incoerenza del caos, ritratto di una famiglia distrutta che abitava un paradiso perduto.

E le scrisse pure, queste cose, nelle note di regia e nell’introduzione al testo pubblicato da Cue Press, precisando tuttavia di averle pensate molti mesi prima delle prove; ma il teatro, si sa, riserva, sia a chi lo vive al di qua di quella che un tempo si chiamava quarta parete, sia a chi lo fa sul palcoscenico, incredibili sorprese, cosicché, alla fine, una volta portato lo spettacolo alla prova del palcoscenico, dovrà ammettere, il talentuoso regista, in tutto candore, di essersi ritrovato, senza averlo mai nemmeno immaginato, a dirigere e interpretare quella che è forse una vera e propria commedia d’amore nonostante non sembri a una prima lettura, un inno, insomma, all’amore familiare che sopravvive nonostante le tempeste che la vita ci riserva.

E meno male che ci son di queste sorprese: perché, al di là della trama, che con maestria evolve nell’arco di un anno, al di là del diverso mettere alla prova emozioni e sentimenti contrastanti, specchiandosi i sorrisi della prima parte con le lacrime della seconda, al di là perfino del pirotecnico proceder virtuosistico della particolare scrittura di Bovell, ciò che resta, alla fine, son proprio le (poche) cose che sappiamo esser vere, il resto, ed è quasi tutto, è, in altre parole, purissima contraddizione della nostra contemporaneità, che ci salva da ogni possibile e pensabile retorica e che ci consente, perfino, di poter  piangere e ridere senza alcun retropensiero, come in una perfetta parabola evangelica, dove ciò che conta è l’immediatezza della comprensione, al di là del puntuale, eppur sempre possibile, darsi ragione di quel che lì davanti a noi avviene, specchio fedele, pur se rovesciato, di ciò che siamo nei confronti di noi stessi e delle persone che amiamo.

È tardi, quando tutto comincia, mezzanotte passata, nella villetta alla periferia meridionale di Adelaide – ma potrebbe essere la periferia di qualunque città, la mia, la tua – squilla il telefono. Comincia proprio così, dalla fine, Cose che so essere vere, in omaggio alla contraddittorietà che è, come detto, cifra della commedia, e poi perché non ci siano dubbi, perché le cose siano, una volta tanto, almeno alla fine di questa piccola parabola del nostro arido contemporaneo, per l’appunto vere, senza fronzoli e barriere, senza distrazioni di massa, senza interruzioni pubblicitarie e consigli della regia. Il telefono squilla e sono i figli a commentare, a chiosare, a baroccare e a baloccare, a ricordare e a impersonare, a giocare a rimpiattino coi sentimenti e le emozioni. Ma è Bob, il padre, che risponde, alla fine.

Perché, almeno alla fine, a questo inferno chiamato famiglia, così inciso nel dolore acerbo e tosto da Andrew Bovell è lecito applicare, in fondo, quel che scrisse, anni fa, un altro wanderer delle umane cose, a sigillo di un viaggio nel giorno e nella notte di invisibili città: se l’inferno c’è – e l’inferno c’è, ed è qui – quasi tutti, pensando di non soffrire, quell’inferno alla fine lo accetteranno, entrandone a far parte, nell’illusione effimera di veder tutto quel dolore, tutto quel tormento, tutta quella pena anestetizzarsi, sparire, una volta diventati essi stessi inferno; se, tuttavia, da quell’inferno volessimo invece salvarci, distinguerlo da noi, condannarlo e isolarlo, bisognerebbe allora saper discernere e riconoscere e cercare e ricercare, con dolore e con pazienza, sfidando invidiosi dèmoni, cosa, in mezzo a quell’inferno, non è inferno, e tenerlo in conto come cosa preziosa, fondarci una vita, lasciargli il suo spazio, farlo respirare, coltivarlo concimandolo di pazienza e lacrime, di notti insonni e abbracci.

Cose che so essere vere © Virgini Mingolla
Cose che so essere vere © Virginia Mingolla

Qui al Teatro Bellini di Napoli quando entri in sala, la scena ti si presenta nuda di sipari, sul fondo una tenda mobile segna l’estremo limite del palcoscenico, vedremo in seguito che i personaggi entrano ed escono di lì: per ora quel confine ci rivela, con una semplice proiezione, il luogo, e dunque individua le coordinate geografiche, poi sarà utile anche a segnare il volgere delle stagioni, e dunque la storia. Sul davanti mobili sparsi – una cucina a L, un tavolo con sedie, una poltrona e un frigo – individuano l’idea di casa, piante di varia grandezza e foggia sono ovunque, il giardino ha invaso la casa, un tosaerba giallo troneggia superbo in prima linea; tutta la scena è montata su una pedana mobile che gira come una giostra.

Nella visione registica di Valerio Binasco, infatti, in tutto assecondato dai pennelli di Nicolas Bovey, il giardino è dentro la casa, l’ha fatta sua, vivono, i componenti della famiglia, letteralmente in mezzo alle piante che, grandi e piccole, belle e brutte, vanno a coagularsi e – allo stesso tempo – a disperdersi in un primordiale caos, espressione della famiglia stessa, secondo il regista, che proietta frammenti dappertutto, simile a una foto dell’universo dopo il Big Bang: una scena dal forte impatto, anche emotivo, perché questa storia familiare molto lascia spazio alle emozioni; è, quel giardino, il paradiso perduto delle migliori intenzioni, naufragato ormai nella pura anarchia del caos, oppure è, quello stesso luogo dell’anima, ciò ci salva, nella cura, nell’accudire pensieri e parole, nelle lacrime che non si spengono mai, siano esse di gioia o dolore?

La risposta, come diceva quel poeta, scrivila nel vento, o nell’acqua che va rapida, l’obliquità della domanda cela già in sé ogni possibilità: a me tanto ricorda la bella addormentata nel bosco, vista quand’ero piccolo, non so se era il film di Disney o un altro, molto mi colpì il fatto che il castello, quando la principessa si addormentava, per il maligno dono di una indispettita fata non invitata alla festa, diventava un bosco, veniva letteralmente invaso da piante grandi e piccole, l’essenza dell’umanità si preservava grazie a quegli alberi e a quelle felci, la coscienza, pur se apparentemente addormentata o imprigionata nell’infinito loop delle cose da fare, mangiare, bere, portar fuori i rifiuti, andare a prendere le bambine, dormire e poi di nuovo mangiare, bere… è sempre vigile e protetta, perché, come diceva Puškin alle origini della nostra contemporaneità, il cielo ci ha donato l’abitudine invece della felicità, per poi magari accorgerti che la felicità risiede proprio in quell’abitudine, preservata in tal modo dai mostri generati dai nostri cattivi pensieri.

Così tutto quel viluppo arboreo che ingombra pensieri e palcoscenico, quel continuo andare e venire attraverso quelle piante, quello spostare incessante fiori e verzure è, sì, certo, il tentativo forse inane di crearsi diversivi che allontanino il buio, coltivare le rose è ciò che rimane a Bob – io odio quelle rose, dice Fran – della sua vita, quando hai perso il lavoro quasi in età di pensione, la vita, la vita a sessantatré anni è ormai come se ti fosse scivolata addosso; e tuttavia, senza tutto questo negare, quel giardino di troppi ricordi e poco incanto è pure il segno di un amore grande, imperturbata icona di quella famiglia che vive, attraversando e seguendo con docilità le stagioni di quell’anno e della vita, affidandosi in tutto solo a quell’amore su cui si sono fondati, piantando quel giardino, curandolo e concimandolo come possono, sbagliando tanto e plasmandosi l’uno sull’altra.

Succede così, in fondo, la famiglia fa sì che ognuno prenda, nel tempo che passa, nelle stagioni che si succedono, la forma che vien data a ciascuno dallo stare insieme accanto agli altri, un millimetro in più o in meno al giorno di tenerezza o di rimpianto o di pudore, e questo incessante processo di crescita e di erosione, di sviluppo e di lima ci fa in ogni momento diversi da come eravamo un attimo prima, fa sì che, come in continua osmosi, prendiamo e doniamo, all’interno di quel microcosmo, molto più di quanto vorremmo, e son cose belle e cose brutte, mirabolanti dolcezze o tossiche alchimie, son comunque cose autentiche, in una incoerenza tenera in cui coltiviamo, come le piante di un giardino, le cose che, noi sì, lo sappiamo, sono vere. Anche se sbagliate.

Cose che so essere vere © Virgini Mingolla
Cose che so essere vere © Virginia Mingolla

È la piccola di casa, Giordana Faggiano ci sa restituire intera la paura e la voglia di crescere di Rosie con la gran capacità di introspezione che ormai abbiamo imparato a conoscere. Un principe azzurro spagnolo incontrato a Berlino poteva essere l’amore. Poteva, se dopo tre giorni d’amore e cereali romanticamente divorati a letto non l’avesse lasciata sola e con quattrocento euro in meno che a lui servivano per andare a Londra dalla sua ragazza. Nemmeno un grazie o un ciao. Così, certo, si cresce, si fa un bilancio di ciò che si ha e di ciò che si è, si contano le cose che si sanno essere vere e si scopre, con crescente angoscia, che sono veramente poche.

E si affretta, allora, a tornare alle sue abitudini, al luogo della sua personale eternità, delle sue ineludibili certezze: torna a casa, Rosie, a pezzi, alla fine dell’estate di giusto un anno fa, senza avvertire nessuno, il giardino che cresce in casa sua è sempre più rigoglioso, il cuore pure, chissà, lo vedremo alla prova dei fatti. È il nostro demone guida, Rosie, ci presenta le cose, sa spiegarci ciò che avviene, la sua giovane età ci garantisce contro nausee ed egoismi assortiti.

La madre – si chiama Fran, è infermiera ed è carne voce e sangue di Giuliana De Sio – ha tanto di tutte le madri, pur senza mai diventare uno stereotipo, in lei si rispecchiano soprattutto quelle donne, la maggior parte, che potrebbero far definire forte il sesso loro se a battezzare consunti cliché non fossero i rappresentanti dell’altro genere: nessuno l’ha mai vista piangere, tranne, una volta sola, Pip, la figlia grande, nel giardino dove è successo tutto, nel giardino che era il mondo, una volta, quando aveva dodici anni, l’ha vista disperata sbattere la testa contro un albero, al punto da spaventarsi e per paura rientrare in casa: cosa può far piangere una donna così, una madre così, che nemmeno quando è morta sua madre?

L’attrice napoletana, che pur tante madri sofferte ha interpretato, sa cogliere la credibile misura di una persona forte che volge spesso in rabbia gli interrogativi che i figli di volta in volta le pongono e che lei non riesce a comprendere fino in fondo: un modo aggressivo di vivere la vita – che intuiamo amare molto – che non le impedirà di dare tutto quello che ha per salvare il più scapestrato dei figli dalla prigione, ben sapendo che questo gesto avrebbe implicato anche dover dare al marito spiegazioni e confessioni che avrebbe volentieri evitato.

Bob, invece, dice a Rosie che sta con Fran da quando era un ragazzino, primo e unico amore, Valerio Binasco dà a questo pater familias un carattere che assomma in sé molte delle contraddizioni della commedia: potrebbe essere una sorta di anziano saggio cui far riferimento nei momenti di crisi ma non lo è per nulla, i figli in caso di bisogno si rivolgono alla madre ben coscienti di doverne affrontare la furia ma consapevoli pure di non poter fare affidamento sul padre.

Ultimamente, poi, dedicandosi solo alla cura del giardino – ci dà l’idea, tuttavia, nel corso di quell’anno fatidico, di custodire nel silenzio molto più di quanto non appaia – si astrae, mentre lavora, osserva sempre più gli uccelli cantare, forse smarrito, forse invece consapevole della sua personale (in)felicità, cercando disperatamente supporto alle sconfitte della vita nell’abitudine, nell’anancastica ripetizione di gesti ed affetti, di baci ed abbracci equamente distribuiti. È una famiglia, questa, notano le illuminanti didascalie di Bovell, che si saluta sempre con dei baci.

Cose che so essere vere © Virgini Mingolla
Cose che so essere vere © Virginia Mingolla

E poi c’è Pip di Stefania Medri che vuole lasciare il marito Steve, non l’ama più, Fran dice che ha un altro, lei nega, per ora accetterà un trasferimento a Vancouver, le bambine restino qui col padre, e un altro no, non c’è, l’ha negato anche con Bob – anche se, d’altra parte, lui non potrebbe sopportarlo, se fosse vero – negare, negare sempre. Sarà la prima ad andar lontano, fisicamente e metaforicamente, in autunno sarà a Vancouver dove c’è veramente un amante – felicemente sposato e con figli anche lui – con cui condividere ciò che alla madre, tanti anni prima, è mancato il coraggio o la determinazione o la voglia di fare.

Con l’inverno sarà Mark (Giovanni Drago), invece, a trasferirsi lontano, ha deciso – Fran lo pensava gay, non Bob che non sapeva o non voleva accorgersi di nulla – di cambiar sesso e diventare donna, sfidando così la furia di mammà e perfino le ire di papà, mentre Ben (Fabrizio Costella)  piomberà in casa, nella successiva primavera, con una storia di soldi deviati su conti farlocchi, droga e macchine costose, solo i soldi di mammà lo salveranno dalla galera.

Infine il cerchio e il ciclo delle stagioni si chiuderà in estate, con la partenza anche di Rosie, un corso di scrittura creativa la porterà lontano, in casa la solita routine, il lavoro di Fran, le lasagne da riscaldare, le bambine di Pip da prendere a scuola, interrotta per sempre dalla telefonata della notte che avevamo visto all’inizio, la morte, dall’altra parte del filo, spezzerà quel loop: sarà perché, come sottolinea Binasco, gli autori contemporanei sono crudeli oppure, come lo stesso Bovell fa dire a Fran, una madre li deve far piangere, i figli… in un modo o nell’altro, oppure, più verosimilmente, perché la morte, il lutto, la mancanza è sempre una cartina al tornasole del nostro sentire, fa (ri)scoprire a chi guarda, a noi laggiù in platea, la presenza e il grado dell’amore, loro, i personaggi, non ne hanno bisogno, lo sapevano già.

Perché poi, alla fine, nonostante i tradimenti, le ripicche, le cose non dette e rimaste laggiù, in fondo in fondo al pozzo nero delle sbiadite primavere che non fiorirono e non fioriranno mai, nonostante le frane e i tormenti e le stagioni che il cuore conosce, un giardino di rose è sempre possibile coltivarlo con cura, proteggerlo dai venti gelidi come da quelli insidiosi, far fronte con quello alle gelate e alle calure che sembrerebbero imporre ben altre soluzioni: di fronte all’inferno dei giorni astrusi che il cielo manda in terra è possibile, con cura, con sacrificio, con intelligenza, con amore decidere di fare diversamente, via dalle facili lusinghe, dalle soluzioni prêt-à-porter, dal rifugio nella comodità dei propri sacrosanti egoismi.

No, non son tutte rose e fiori, in questo giardino, l’erba infestante cresce spesso ben più che i fiori, nulla rimane mai uguale a se stessa, le persone di certo non sono perfette, e il dolore ha troppo spesso il sapore amaro delle cose perdute, delle persone perdute, e tuttavia il senso più autentico di questo dramma è proprio qui, in fondo, in questo cercarsi e ritrovarsi aspettando nuove stagioni che verranno, migliori o peggiori lo sapremo vivendo, l’importante è farlo insieme, pur nell’infinita povertà delle nostre contraddizioni e incoerenze.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
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la-tenera-incoerenza-delle-cose-che-so-essere-vere-anche-se-sbagliateCose che so essere vere <br>(Things I Know to Be True) <br>di Andrew Bovell <br>traduzione Micol Jalla <br>regia Valerio Binasco <br>con Giuliana De Sio, Valerio Binasco Fabrizio Costella, Giovanni Drago, Giordana Faggiano, Stefania Medri <br>scene e luci Nicolas Bovey <br>costumi Alessio Rosati <br>suono Filippo Conti <br>video e pittura Simone Rosset <br>produzione Teatro Stabile Torino - Teatro Nazionale, Teatro Stabile Bolzano, TSV Stabile del Veneto - Teatro Nazionale <br>In scena dal 4 all’ 8 dicembre 2024 <br>Durata 100 minuti <br>Napoli, Teatro Bellini, 4 dicembre 2024