Un thriller noir ed onirico al teatro Herberia di Rubiera

Otto porte di legno, cinque a sinistra e tre a destra, sono orientate come a costruire un vicolo, un tunnel che ci proietta verso lo sfondo, nero. I colori del legno delle porte, dei vestiti degli altri personaggi e delle luci che rimbalzano per terra hanno tinte calde e stridono con i vestiti del protagonista, come vedere una camicia celeste e pantalone elegante in un polveroso film western. Si percepisce subito la diversità, anche solo a livello subliminale, fra gli altri e quello che potremmo definire una persona comune, che si stava mangiando un piatto di ostriche (“ad agosto?”) con i suoi amici e d’un tratto si trova in una specie di mondo parallelo, dove le persone seguono leggi animalesche e sono assetate di sangue.

Il nostro eroe incontra un signore che ha perso il cane ma che sembra molto più attratto dalla sua carne che non a ritrovare il fedele amico. Nella colluttazione che ne segue, il padrone del cane ha la peggio, il coltello lo attraversa con facilità anche se maneggiato quasi per sbaglio dal protagonista nell’estremo tentativo di difendersi. Lo sbigottimento dell’uomo è alle stelle e ce lo viene a dire in faccia, ad un microfono sul proscenio, per renderci ancora più coinvolti e partecipi dei suoi pensieri, sta parlando proprio a noi. Le porte vengono riposizionate a formare l’interno e l’esterno della casa di una ragazza che tenta di aiutarlo, mentre tutti sembrano volergli fare la pelle. Ciò accade pure con la sorella di lei, che lo seduce per poterlo uccidere ma assaggia immancabilmente il suo pugnale. Portato in prigione, diventa più sospettoso di tutti quelli che lo circondano, dato che hanno un’idea pressoché fissa: mangiarselo. Sorprendente verso il finale l’incontro con il cane perso all’inizio che, interpretato dal medesimo attore, parla e sembra differire ben poco dal suo padrone.

Il tempo sembra essersi fermato in questo spicchio di esistenza delimitato da montagne piene di lupi famelici. Le persone sono animate da una fame incontrollabile, come zombie di un mondo ormai decrepito, arido e “sabbioso”. E’ interessante notare il cambiamento del protagonista, che si abbrutisce, diventando più sospettoso e determinato, e della scena, che si riempie della sabbia caduta dall’alto su ogni personaggio che viene spedito al creatore. Il nostro uomo, per lottare e difendersi, suda e la sabbia gli si appiccica addosso imbrattando la sua camicia appena stirata, come a uniformarlo pian piano a quei polverosi figuri che lo inseguono.

I personaggi che l’uomo uccide sono rappresentati dai soliti attori, persone diverse ma simili, come sono indifferenziati gli zombie nei film horror. Anche il passare del tempo è molto incerto: ad esempio quando l’uomo viene rinchiuso in carcere, sembra appena arrivato eppure la ragazza gli chiede con forza come mai non ha risposto a tutte le sue lettere: quanto tempo è rimasto lì? Lo stesso padrone del cane iniziale afferma “io sono qui da sempre”.

Non è facile interpretare cosa effettivamente si vuole comunicare con questo testo: forse solo leggendo la trama della precedente opera teatrale del medesimo autore, il tedesco Marius von Mayenburg, si può cercare una chiave di lettura di questo spettacolo. Kurt, piromane incallito, uccide i suoi genitori e si suicida sempre utilizzando il fuoco come arma. Forse è sotto i riflettori la follia umana, che fa vedere al protagonista il mondo normale come pieno di bestie fameliche pronte ad aggredirlo? Saltano alla mente i discorsi farneticanti di alcuni killer seriali che sono arcisicuri di essere oggetto di una complicata cospirazione planetaria, quando invece è la loro malattia a distorcere la realtà. Il testo non si sbilancia mai in spiegazioni, resta sempre in bilico fra il confondere e il celare, tanto da farci sospettare che non ci sia un particolare “messaggio nascosto”. L’unica pecca è nel finale, che si differenzia molto dal resto dello spettacolo imprevedibile e sorprendente, che invece risulta telefonato fin dall’inizio.

I tre attori della Scuola di Arte Drammatica Paolo Grassi sono molto bravi sia nei numerosi cambi personaggio sia nella trasformazione da “uomo comune” ad omicida del protagonista. Le sue lotte interiori vengono fuori, anche se la scelta registica del microfono sul proscenio, abbinato ad un’illuminazione soffusa della platea, alla lunga annoia perché ripetitiva.

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