“Un ballo”: cosa l’amore di una figlia per la propria madre può perdonare

[rating=4] Una flebile luce bianca colpisce il volto pallido di Antoniette, seduta su una sedia di legno. Qualche istante dopo un’altra luce, dall’altro lato del palcoscenico, traccia dall’alto i contorni dei suoi familiari in attesa, immobili. Dopo un’incertezza iniziale, Antoniette varca lentamente ed inesorabilmente il buio che li separa e va a posizionarsi ai loro piedi, entra nella loro luce, si uniforma a loro pur essendo stata in precedenza un’altra cosa, nettamente separata. Con questa suggestiva scena, che apre lo spettacolo “Un ballo” al Teatro delle Passioni di Modena, lo spettatore percepisce inconsciamente il distacco, la netta demarcazione fra la quattordicenne e i suoi familiari, fra i bisogni di un’adolescente e quelli della sua asettica e fredda famiglia, interessata soltanto alla neoraggiunta posizione sociale.

La musica anni ’40 e il racconto che Antoniette ripete in tedesco, sotto lo sguardo disattento della sua governante insegnante, ci riportano agli anni precedenti la prima guerra mondiale in Francia, ma sembrano ricordi di un’Antoniette ormai adulta. Le luci soffuse e quasi puntiformi, i cambi scena in penombra, le pause, il passaggio di ombre come se fossero fantasmi e la ripetizione di alcuni gesti più e più volte sembrano sogni, reminiscenze di una mente che sta rivivendo quelle sensazioni remote. L’accento, coadiuvato dalle bellissime luci di questo spettacolo, si ferma sui tratti salienti, ingoiando il resto nell’ombra. Tutto questo non è presente nel testo molto autobiografico di Irène Nèmirovsky del 1930, che peraltro ha un titolo leggermente diverso, “Il ballo”: la valanga di parole e di quotidianità è stata asportata, spariti tutti i commenti superflui, il testo da quasi una novella è diventato una sequenza di emozioni forti, di risentimenti di una ragazza verso la sua mamma che non la capisce e la schernisce ad ogni occasione, una sequela di “e ti ricordi quando…” di una mente che ancora non ha superato quei traumi e non può far altro che riviverli, come nella scena in cui la mamma si trucca e la bimba può solo imitarla e poi sorreggerle lo specchio per essere con lei, per apparire ai suoi occhi. Oppure quando si contano tutti gli invitati al fantomatico ballo e Antoniette ripete sempre i soliti nomi mille volte, sono solo dei numeri insignificanti per lei ma che le tolgono l’attenzione di sua madre. La falsità della società del tempo costringe i suoi genitori a curare solo l’apparenza, a perdere di vista gli affetti e i valori di una famiglia “normale”: e questo accadeva anche nella realtà all’autrice Irène che, quando si trova in villeggiatura, era solita alloggiare, con la sua governante, in una pensioncina defilata invece che nell’albergo lussuoso insieme ai suoi genitori.

Le luci e le riflessioni colpiscono il padre, quasi nano e succube della mamma, la governante che non si interessa a lei e che obbedisce pedissequamente agli ordini, risparmiano il cameriere che si muove sempre nell’oscurità ma ovviamente sono puntate sulla madre, responsabile di tutto. Nel finale Antonietta si “vendica” di tutte le angherie subite negli anni ma non lo fa volontariamente, il suo intento è solo quello di mortificare sua madre per renderla abbastanza vulnerabile da consentirle di apparire ai suoi occhi. Quando questa non può più ignorarla, quando sente che sua figlia può aiutarla a risorgere dal suo disonore, lei stringe la mano della mamma e, per la prima volta nello spettacolo, accenna un sorriso. Il testo originario recita: “Sei una buona figlia Antoniette…”. Mentre una stava per spiccare il volo, l’altra sprofondava nell’ombra. Ma non lo sapevano. Eppure Antoniette ripeteva con dolcezza: “Povera mamma….”. Tutto questo è stato concentrato nel sorriso finale di Antoniette, il cui infinito amore per il proprio genitore cancella le ferite, l’odio, il male.

Una rivisitazione del testo profonda che tuttavia ne concentra tutte le caratteristiche e le dinamiche. I gesti lenti degli attori, sempre sostenuti da intense emozioni, sono più forti di mille parole.

Uno spettacolo recitato bene, molto curato e con una buona regia, senza dubbio degno di aprire la stagione 2013-2014 del Teatro delle Passioni: e se il buongiorno si vede dal mattino…

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