Tutti i colori di uno sgargiante Misantropo

Andrée Ruth Shammah mette in scena uno sfolgorante Molière

Il Misantropo © ph Filippo Manzini
Il Misantropo © Filippo Manzini

Ci si può innamorare profondamente di una persona che rappresenta tutto ciò che detestiamo? Succede questo ad Alceste, nobile giovane che detesta la falsità e le convenzioni della società parigina dell’epoca del Re Sole, perché, inspiegabilmente, inopinatamente, sorprendentemente si ritrova innamorato di Celimene, donna che, molto più di altre, incarna tutto ciò che lui disprezza: è frivola, capricciosa, legata alla vita mondana e ai pettegolezzi, se Alceste desidera con tutte le sue forze una società più onesta e sincera, non riesce tuttavia a rompere i legami affettivi con una persona che, pur incarnando tali difetti, e in massimo grado, lo affascina irresistibilmente.

Andrée Ruth Shammah sceglie Il Misantropo, in questi giorni al Teatro Piccinni di Bari, per celebrare il teatro, intravedendone il più autentico spirito nell’assenza di giudizio e nell’esplorazione dei diversi punti di vista che si realizzano in questa che è una delle più celebri ma probabilmente anche più sofferte tra le commedie di Molière. Aveva quarantaquattro anni, quando la scrisse, all’acme di un periodo di grave difficoltà, sia sul piano professionale a causa della censura che aveva duramente colpito Don Giovanni e Tartuffo, sia su quello personale, le prime avvisaglie della crisi del suo matrimonio con Armande Béjart, attrice anch’essa, di vent’anni più giovane, sposata alcuni anni prima. È forte, il dato biografico, in questo Misantropo che fatica sempre più a riconoscersi in una società bigotta e falsa, la crisi dell’intellettuale del secolo barocco è tutta lì, addio tagliente ironia, beffardo ghigno che si beffa delle umane ipocrisie, è tempo, questo, di guardarsi dentro col solito sguardo impietoso.

E comunque si tratta, per la regista, in qualche modo, anche di chiudere idealmente un cerchio, aperto con e per Molière quarant’anni fa – sì, passa, il tempo – nel 1984, con uno sfavillante Malato immaginario al Teatro Parenti di Milano, inaugurato proprio dalla stessa Andrée Ruth Shammah una decina d’anni prima, nel 1973, quando ancora si chiamava Salone Pier Lombardo, mettendo allora in scena L’Ambleto di Testori, ed erano 300 anni dalla morte di Molière. Uno straordinario carosello di anni e ricorrenze che, al di là della mera celebrazione, sempre un po’ uggiosa nel puntiglioso computare il tempo che passa, serve piuttosto a ricordarci il senso ultimo e la perdurante ispirazione del fare teatro, diventa, allora, la rappresentazione dei dolori del giovane Alceste, l’occasione, attraverso un testo straordinario, per rinverdire, in chi il teatro lo fa e lo vive, a tutti i livelli, le ragioni di uno straordinario amore, di una incessante passione, di un inesausto piacere.

Si veste la scena, per l’occasione, allora, d’un abito che nasconde, sotto una dimessa e grigia parvenza, ben più di quanto al nostro sguardo appaia, rivelando enormi potenzialità che poi sembreranno più chiare e in atto nel corso degli eventi che su quel palcoscenico si susseguiranno: inscrive, la sapiente matita di Margherita Palli, l’intera scena in una struttura dall’architettura semplice e complessa insieme – che racconta la casa di Celimena dove tutta la commedia si svolge – due pilastri e un’architrave delimitano uno spazio scenico che sarebbe troppo facile descrivere metateatrale, gli stessi delimitanti lasciano a entrambi i lati due zone come riservate al superfluo, all’ulteriore, al commento, all’intenzione inespressa in scena, al detto e poi negato.

Sono, i due pilastri e l’architrave, riproduzione della Sala Testori del Teatro Franco Parenti dove si svolsero le prime prove in costume dello spettacolo, uno spazio reale che in tutto si assimila all’artificio scenico, in connubio e scambio continuo, tal quale la sala prove – poi trasmutata sulla scena come portico della casa dei Larin – in cui lavorò Stanislavsky per l’Eugene Onegin del 1922, che ancor oggi si conserva a Mosca come reliquia preziosa di quel modo d’esser teatro. Una serie di sipari di pesante velluto rosso, lo vedremo, verrano a chiudere, alternativamente e a tratti, la scena centrale o gli spazi laterali, ancor più sottolineando il carattere teatrale del complesso apparato che vieppiù si complica sul fondo, dove, nella zona centrale, si aprono tre grandi accessi con un corridoio praticabile sul retro, lo spazio di destra è invece occupato sul fondo da due grandi e luminose porte finestre, munite anch’esse di tende rosse, che danno su un giardino, una qualche significativa via d’aria e di fuga, mentre, a sinistra, lo spazio è concluso da un uscio occulto, socchiuso e obliquo alla vista e al sentire, da dove, alla chetichella, potranno entrare in scena personaggi e sorprese.

Il Misantropo © Filippo Manzini
Il Misantropo © Filippo Manzini

E sorprese certo ce ne sono, la scoperta metafora teatrale della scena non maschera per nulla allusioni alle trame che, copertamente o scopertamente obliquamente si ordiscono, nella vita come nel teatro, che di quella è imitazione e finzione: così, quando si entra in sala la scena che abbiamo descritto già ci aspetta, nuda di sipario, al centro troneggia, un po’ di sbieco, un’allusiva sedia da regista, si attenuano le luci ed entra un personaggio in tuta arancione, un servo di scena che mette a punto le strutture sul palcoscenico, sposta una panca, rassetta un cuscino, apre le finestre scostando le tende e lasciando entrare la luce.

Alla fine saranno due, i servi di scena che son pure, significativamente, i servi della casa di Celimene, identificando allora e in modo definitivo quella casa col teatro e, in particolare, col teatro di Molière. E ci sembra proprio di vedere lui, l’Autore, entrare in scena, è Molière o Alceste, quel personaggio vestito di nero? Sicuramente ci sono, nel Misantropo, dati autobiografici, e dunque senza dubbio c’è un legame tra quel misantropo per necessità e Molière, che di quel dramma fu autore e regista oltre che, naturalmente, primo interprete, eppure quella relazione non è d’assoluta identità, sempre chi scrive compie una sofferta e complessa mediazione tra il suo più intimo sé e il personaggio.

La transizione dall’Autore al Personaggio, da Molière ad Alceste avviene allora così, con uno straordinario coup de théâtre che Andrée Shammah sa regalarci nell’assoluta semplicità di uno sguardo limpido e di una situazione ordinaria, lui, il commediografo, seduto come in profonda meditazione creativa sulla sedia da regista, i personaggi che, entrando uno a uno quasi meravigliati del luogo dove scoprono trovarsi – sala prove, teatro, spazio interiore che sia – (ri)nascono a nuova vita come ogni sera, si siedono sulle panche ai lati, quando Philinte si fa avanti e chiede ragione all’altro di tanta rabbia, colui che risponde non è più Molière, è diventato in quell’istante Alceste il misantropo, Alceste indifeso nella sua indignata comicità, il miracolo del teatro s’è compiuto sotto lo sguardo ignaro di chi, come noi, siede in platea.

Perché poi, in questa rappresentazione della fiera delle vanità, la trama è esilissima, poco più che un pretesto, sotto la sottilissima superficie tragicomica c’è carne e sangue, ferite vive e palpitanti, l’impossibile desiderio d’adeguarsi ad una realtà che si disprezza, costruendo, alla fine, un dramma di sconcertante vitalità: riesce, la regista, nell’impresa di condurre il gioco con mano lieve, sempre rifuggendo ogni naturalismo in scena, sfruttando anzi il teatro barocco e le sue convenzioni per magnificamente – e sorprendentemente, com’è ovvio – rapportarci all’oggi.

Così son teatro i costumi, disegnati da Giovanna Buzzi, che pur fedelmente richiamandosi al Secolo del Re Sole, hanno diversi e sgargianti colori pastello, memoria tutti di una qualità del personaggio, più rappresentazione di vizi e virtù che introspezioni psicologiche; son teatro le luci, quelle autentiche curate da Fabrizio Ballini e le innumeri – false – luci di scena, la citata luce solare che piove delle porte finestre, quelle, poetiche, del proscenio, imitazione delle candele che si accendevano sul davanti del boccascena per illuminare il palcoscenico, i candelabri dalle lunghe candele che illuminano di tenue calore corridoi altrimenti deserti e gelidi, i due grandi lampadari barocchi a goccia che scendono dall’alto come piatti di un’immane stadera, ad indicarci, forse, una costante difficoltà a dare il giusto peso alle cose e che alla fine finiranno a terra, certificando anche l’impossibilità di un’equa conclusione del gioco scenico; è teatro la musica del linguaggio che ci ammalia e ci conquista traslando, per la maestria di Valerio Magrelli, il verso alessandrino così inimitabilmente francese nella sua essenza e nel legame profondo con la lingua di quel popolo, in settenari incrociati che risuonano splendenti e vaghi in un ritmo, invece, pienamente italico in forma e sostanza.

Il Misantropo © ph Filippo Manzini
Il Misantropo © Filippo Manzini

Son teatro i personaggi e i loro interpreti, che vivono in pieno la vicenda che è satira sociale ma anche profonda indagine sui caratteri umani, sempre guardati con simpatia e non con misantropia dall’Autore e dalla regista. Celimede è, così, incarnata, in tutta la complessità di donna che, a modo suo, sfida i ruoli tradizionali, da una seducente Marina Occhionero irresistibile nel suo abito verdegiallo, astuta, spiritosa, riesce a renderne a perfezione la superficialità e la frivolezza spirito del tempo, tuttavia intelligente e pensosa quando riesce a destreggiarsi tra i numerosi pretendenti, suggerendo una critica sottile alla rigidità delle aspettative sociali.

Philinte è per Alceste più che un amico e un confidente, sta a lui come Orazio ad Amleto, punto di equilibrio rispetto all’eccezionalità dell’altro: Angelo Di Genio riesce a coglierne la pacatezza e la bonomia, il suo abito grigio riflette la razionalità del personaggio che, si badi, non è mai cedimento, anch’egli non ama l’ipocrisia e la corruzione del tempo suo, e tuttavia – appieno incarnando il punto di vista di Molière – riesce a intravedere la possibilità di una sintesi superiore. Come il turchese di cui veste il suo personaggio, Maria Luisa Zaltron infonde, poi, in Eliana, una luce e una tenerezza inusitata, sapendo incarnare la possibilità di un amore vero pur nel dominio dalle apparenze e dei giochi di potere del Grand Siècle, mentre l’Orsina di Margherita Laterza finisce per rappresentare, col suo costume giallo, l’altra faccia della femminilità dorata e splendente e tuttavia espressione della vanità di quello stesso secolo.

E diversa espressione della vanità vanagloriosa è pure Oronte, così ben interpretato da Corrado D’Elia nel suo ricercato abito color melanzana, tanto da meritargli molti applausi alla fine, caratterizzazione perfetta dell’autocompiacimento e dell’assoluta mancanza di autocritica così comuni allora come oggi, mentre il baffuto Acaste fasciato d’azzurro brillante di Guglielmo Poggi e il biondone Clitandro incarnato da Filippo Lai, pretendenti di Celimene, risultano al punto giusto vanitosi e superficiali, simboli della frivolezza e dell’opportunismo della società. Si muovono con passo felpato e leggerezza arcana tra ombra e luce delle candele, Andrea Soffiantini e Matteo Delespaul, i due servi, sistemando pavoni impagliati e candelieri dalla luce ambrata, bella e poetica intuizione di due personaggi a metà tra teatro e vita, tramite concreto e reale tra i due mondi; buona caratterizzazione, poi, del Du Bois di Pietro De Pascalis e della Guardia di Francesco Maisetti.

E poi c’è, naturalmente, Alceste, ovvero i trasalimenti e le debolezze travestite di rocciose e granitiche certezze rese con grande umanità da Fausto Cabra: idealista intrattabile e radicale, determinato a combattere la falsità e l’ipocrisia della società, il suo Misantropo ha accenti veri che escono dalla rappresentazione della rigida incarnazione di un esasperato narcisismo per approdare ad una inedita tenerezza e fragilità: quando, alla fine, dicendosi da tutti tradito e oppresso da ogni sorta di ingiustizie, crolla su una sedia, si coprirà con il sipario, sparisce Alceste, torna Molière che ormai è tutt’uno con il teatro, vive al suo interno, diventando eterno.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Drammaturgia
Attori
Allestimento scenotecnico
Pubblico
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tutti-i-colori-di-uno-sgargiante-misantropoIl misantropo <br>di Molière <br>progetto e collaborazione alla traduzione di Andrée Ruth Shammah e Luca Micheletti <br>regia Andrée Ruth Shammah <br>traduzione Valerio Magrelli <br>con Fausto Cabra e con (in o.a.) Matteo Delespaul, Pietro De Pascalis, Angelo Di Genio, Filippo Lai, Margherita Laterza, Francesco Maisetti, Marina Occhionero, Guglielmo Poggi, Andrea Soffiantini, Maria Luisa Zaltron <br>e la partecipazione di Corrado d’Elia <br>scene Margherita Palli <br>costumi Giovanna Buzzi <br>luci Fabrizio Ballini <br>musiche Michele Tadini <br>cura del movimento Isa Traversi <br>produzione Teatro Franco Parenti / Fondazione Teatro della Toscana <br>Durata: 2 ore e 30 minuti compreso intervallo <br>In scena dal 28 novembre al 1 dicembre 2024 <br>Bari, Teatro Piccinni, 28 novembre 2024