
Nel 1959 l’allora sessantenne Eduardo De Filippo, già raggiunti i più alti e prestigiosi riconoscimenti della sua brillante carriera d’artista, scrive una lettera a Umberto Tupini, ministro della Cultura, vergando sulle pagine di Paese Sera uno fra i più crudi e paurosamente attuali ritratti del teatro italiano. “Un cadavere putrefatto”, della cui sostanza l’umanità cessa progressivamente di voler cogliere nutrimento, in luogo di fettuccine e competizioni sportive, meglio atte a “saziare” un pubblico di cervelli “concimati” nella stupidità. Solo poche battute tracciate dalla penna brillante e geniale di un grande autore, che non aveva mai smesso di sentirsi fondamentalmente un capocomico. Non aveva bisogno lui, di impegnarsi in donchisciottesche battaglie contro tutta quella schiera di burocrati ed “esperti” senza titolo, che a suo dire dal dopoguerra in poi, non avevano fatto altro che incoraggiare tristemente “tutte le forme di dilettantismo estetizzante”, “esterofilia provinciale”, “analfabetismo impegnato”, per produrre un teatro gradito più che al pubblico disertante, a improvvidi beneficiari di fondi statali e altrettanto sprovveduti e ignoranti benefattori. Certamente no, eppure lo fece per tutta la vita, cercando in quella interminabile fabbrica del San Ferdinando la realizzazione di un teatro finalmente libero. Lo comprò sventrato dalle bombe e si indebitò fino al midollo per ripagarne i lavori di ristrutturazione; dopo alterne vicende finì in mano all’ETI e poi dagli anni ottanta chiuso definitivamente. Eduardo morì nel 1984 e così lo vide, chiuso, prima di chiudere i suoi di occhi e lasciarci orfani del suo talento. Nel 2007 ha riaperto i battenti con La tempesta, tradotta in napoletano proprio da Eduardo. Un omaggio all’artista, ma forse soprattutto all’uomo, che aveva impegnato in quella e in altre non meglio vittoriose imprese, la sua parabola umana.
Lino Musella ce lo racconta proprio così in Tavola tavola, chiodo chiodo, un monologo costruito su carteggi, lettere, diari, epistole private dell’Eduardo uomo appunto. Un uomo dal carattere non sempre facile, in rotta con gli amati fratelli, ostinato, irascibile, ma anche tenero, generoso, intelligentissimo. Musella ricompone così, col suo talento esondante, il ritratto del De Filippo capocomico, che cerca con le sue stesse mani di tirar su quel teatro che gli cadeva addosso, in senso metaforico e non. Preda quasi di un esacerbato perfezionismo da allestitore compulsivo di presepi, come il suo celeberrimo Luca Cupiello. Lo fa con l’ausilio musicale di Marco Vidino, che lo accompagna magistralmente alla chitarra, con un disegno luci meravigliosamente soffuso e una scenografia quadrangolare dove ogni cardine sembra segnare momenti diversi della vita personale dell’artista. Indimenticabili pezzi di puzzle, cuciti insieme dalla verve attoriale di Musella, gigante della scena, dall’intervista televisiva alla visita al carcere minorile Filangieri, passando per le reiterate telefonate dai piani alti, specchio di una politica volgare e inaffidabile.

Lo spettacolo nasce in era pandemica dalle riflessioni fatte dallo stesso Musella in merito allo stato dell’arte e stupisce enormemente l’attualità di quelle parole con addosso oltre sessant’anni. In un noto rendezvous accademico, in cui intervennero fra gli altri Carmelo Bene e lo stesso Eduardo, si parlò ancora di quella famosa lettera al ministro Tupini. Era il 1982, l’anno dei mondiali. “Finché esisterà un filo d’erba vero, ne esisterà uno finto sul palcoscenico”, recita un passo dello spettacolo e fra fili d’erba veri l’Italia calcistica vinceva, mentre fra gli scranni della Sapienza quella lettera decretava vent’anni dopo ancora una sconfitta. “Un coro di rane” gracchianti allora questo teatro destinato a perdere ogni battaglia contro il merito e il talento? In larga parte sì, ancora oggi, purtroppo. Non ne fa parte Lino Musella, che si offre con garbo e cura a chi voglia cogliere le sfumature più profonde di questa pièce, o anche solo l’interpretazione più banale: col teatro non si campa, anzi spesso si va incontro a morti plurime. Resiste tuttavia, incomprensibile e bellissima, la volontà di continuare a raccoglierne l’eredità. Perché? Come recitava uno di quei passaggi dolenti e amari delle parole di Eduardo ai detentori del potere “borghese”, non esisteva allora come non esiste oggi dopotutto una ragione valida per cui un giovane di buone speranze, debba affidarsi alla carriera di attore o peggio autore, sapendo di andare incontro a un cammino di continue e insolvibili frustrazioni. Ebbene quel motivo sopravviveva in lui, come in Musella e fortunosamente in tanti altri, che ancora sono in grado di regalarci emozioni autentiche, come testimoniano i cinque sentitissimi minuti di applausi alla prima del Teatro Vascello a Roma. Non il denaro, non il successo, nemmeno i spesso sospirati riconoscimenti pubblici, quel che davvero ci fa amare il teatro è la pura, semplice, genuina, sacra, forse fatale, volontà di reinventarci in ogni istante dentro e oltre la famigerata quarta parete, luogo privilegiato in cui imparare a riconoscerci e forse accettarci. Bravo bravissimo Lino Musella che ce lo ha ricordato.