
[rating=3] Amleto, dici? Che c’entra Amleto? C’entra, c’entra, dico io: non è forse il pensiero dei sogni che potrebbero venire in un supposto altrove, che ci rende esitanti di fronte alla morte? E questo Sogno d’una notte di mezza estate, al Teatro San Ferdinando di Napoli, si trasforma, allora, grazie alle affatate mani della riscrittura audace di Ruggero Cappuccio, e si realizza – nel qui ed ora del dramma (meta)teatrale di quell’esitar d’Amleto – nella penombra fosca d’un antico partenopeo palagio.
A Napoli siamo di certo – lo dicon più volte gli attempati protagonisti, vecchi d’anni e mancate promesse, Oberon dalla panza falstaffata, Titania affascinante nel biancore splendido della canizie – pure nun ce sta ‘o sole, luce non filtra attraverso le tapparelle che pure ci dicono sfondate, tepore non riscalda il gelo d’un sonno che sembra eterno. È dai pensieri (dalla sostanza dei sogni) dei monarchi delle fate – schegge di dei – che tutto prende origine, gli altri personaggi del rincorrersi erotico e giocoso che fu del Poeta altro non son che burattini – letteralmente – nelle mani loro, dal corpo di pezza e dalla legnosa testa: alla fine s’unirà a loro pure il pulcinellesco frutto dell’amore d’Oberon e Titania, partorito nel dolore e nell’ammuinare vorticoso delle cose, cittadino per eccellenza di quelle terre di mezzo.
E se Puck conserva le caratteristiche di servo d’amore pasticcione, e gli elfi sembrano quasi sul punto di mangiar patate come Vincent volle rappresentar i bifolchi del tempo suo, ti rendi conto a un tratto che non solo qui manca il bosco, ma l’estate pure, e ti ritrovi d’un tratto nel bel mezzo d’un gelido inverno, anzi l’inverno del nostro (del loro) scontento; rimane il sogno, certo, che poi è teatro, rappresentazione mascherata d’un represso desiderio, come diceva il buon Sigmund, brama di simulazione della vita attraverso il continuo travestimento e il mutar delle cose: quando, alla fine, la sperata e cercata e voluta rappresentazione delle vicende di Piramo e Tisbe di fronte al Duca d’Atene va definitivamente in fumo, quando l’elaborato sogno più non potrà aspettarsi la surroga del reale, altro non rimarrà, se non vecchie nostalgie e affannati rimpianti e – d’un tratto, come improvvisa epifania – la comprensione ultima della notte e della morte, anzi del viaggio, ormai disincantato, al termine della notte stessa.
La scrittura di Cappuccio (ri)assembla il puzzle del Bardo rimescolandone le tessere a piacere, cercando un’altra Atene in una Napoli supposta senza ‘o sole e ‘o mare, ma pur sempre uguale a se stessa nell’intima essenza, e, senza negare le sonorità dell’ordito shakespeariano, scommette di poterle, in qualche modo, ampliare, in un vernacolo al tempo stesso (e similmente al modello) illustre e gaglioffo, incistato com’è nella città dei simboli e dei miti antichi: lo storpiamento della lingua d’Albione si succede così a preziosità, ceselli e riccioli in quella di Dante e alle espressioni francamente partenopee, per cui si sciorina un “sugar spell” accanto a “io ‘a jetto ‘a coppa abbascio”, i “very dangerous” fan coppia coi “pere cata pere” e le “pazzielle scassate” coi “liric bolling”.
E la ricerca continua del “confine” (in questo caso (ri)creando una lingua che si contamina continuamente d’influenze viciniori) costituisce un po’ il senso e conferisce un timbro ben caratteristico a questa rappresentazione: così, perennemente lo spettatore viene portato per mano e lasciato sul ciglio, sul bordo del confine, del limite (guai a soffrir di vertigini, sospesi così sull’abisso), sia quello tra sonno e veglia – lapalissianamente – ma anche tra giorno e notte, morte e vita, giovinezza e vecchiaia, illusione e realtà, dramma e buffoneria, fedeltà al testo e continuo rimaneggiamento: una persistente ricerca dell’essenza borderline della realtà e del teatro, dell’incessante rituffarsi e compiacersi nella sostanza delle cose, che, poi, si sa, è fatta della stessa materia dei sogni.
La regia di Claudio Di Palma è perfettamente funzionale alla macchina teatrale ideata da Cappuccio, precisa, lucida, senza sbavature di sorta, grazie anche all’apporto delle scene di Luigi Ferrigno – che costruisce una sorta di palazzo da bella addormentata con cirri viticci caprioli fiocchi ciocche che s’avvolgono al tetto a graticcio che sovrasta la stanza ove soggiorna il gran letto del re e della regina delle fate, cristallizzandolo in una immobilità verde e gelida; gli elfi stazionano, invece, in temporanea catalessi, in teche di cristallo – dei costumi di Annamaria Morelli – candidi e barocchi dagli imponenti orpelli e improbabili parrucche quelli dei due regali protagonisti, semplicemente contadineschi e rustici quelli degli elfi – delle musiche scelte da Massimiliano Sacchi; soprattutto notevole il lavoro attoriale, sia da parte dei due protagonisti – poderoso, buffonesco e profondo l’anziano Oberon di Lello Arena ed elegantissima, volitiva, tenera la bianca Titania d’Isa Danieli – sia da parte dei comprimari – in primis il fanciullesco Puck di Fabrizio Vona, oltre agli elfi di Renato De Simone, Enzo Mirone, Rossella Pugliese e Antonella Romano – che, insieme, danno gran prova di sapienza teatrale, rendendo al meglio con liquida duttilità ogni possibile sfumatura, ogni passaggio dall’uno all’altro confine che via via viene attraversato, senza nulla perdere in profondità e allegria: il pubblico – teatro pieno, grandi applausi alla fine – mostra di aver compreso e apprezzato.