Sogno borderline d’una notte di gelido inverno

In scena al Teatro San Ferdinando di Napoli fino al 21 febbraio la riscrittura audace di Ruggero Cappuccio per la regia di Claudio Di Palma della famosa opera del Bardo

[rating=3] Amleto, dici? Che c’entra Amleto? C’entra, c’entra, dico io: non è forse il pensiero dei sogni che potrebbero venire in un supposto altrove, che ci rende esitanti di fronte alla morte? E questo Sogno d’una notte di mezza estate, al Teatro San Ferdinando di Napoli, si trasforma, allora, grazie alle affatate mani della riscrittura audace di Ruggero Cappuccio, e si realizza – nel qui ed ora del dramma (meta)teatrale di quell’esitar d’Amleto – nella penombra fosca d’un antico partenopeo palagio.

A Napoli siamo di certo – lo dicon più volte gli attempati protagonisti, vecchi d’anni e mancate promesse, Oberon dalla panza falstaffata, Titania affascinante nel biancore splendido della canizie – pure nun ce sta ‘o sole, luce non filtra attraverso le tapparelle che pure ci dicono sfondate, tepore non riscalda il gelo d’un sonno che sembra eterno. È dai pensieri (dalla sostanza dei sogni) dei monarchi delle fate – schegge di dei – che tutto prende origine, gli altri personaggi del rincorrersi erotico e giocoso che fu del Poeta altro non son che burattini – letteralmente – nelle mani loro, dal corpo di pezza e dalla legnosa testa: alla fine s’unirà a loro pure il pulcinellesco frutto dell’amore d’Oberon e Titania, partorito nel dolore e nell’ammuinare vorticoso delle cose, cittadino per eccellenza di quelle terre di mezzo.

 Sogno d'una notte di mezza estate | regia di Claudio Di Palma

E se Puck conserva le caratteristiche di servo d’amore pasticcione, e gli elfi sembrano quasi sul punto di mangiar patate come Vincent volle rappresentar i bifolchi del tempo suo, ti rendi conto a un tratto che non solo qui manca il bosco, ma l’estate pure, e ti ritrovi d’un tratto nel bel mezzo d’un gelido inverno, anzi l’inverno del nostro (del loro) scontento; rimane il sogno, certo, che poi è teatro, rappresentazione mascherata d’un represso desiderio, come diceva il buon Sigmund, brama di simulazione della vita attraverso il continuo travestimento e il mutar delle cose: quando, alla fine, la sperata e cercata e voluta rappresentazione delle vicende di Piramo e Tisbe di fronte al Duca d’Atene va definitivamente in fumo, quando l’elaborato sogno più non potrà aspettarsi la surroga del reale, altro non rimarrà, se non vecchie nostalgie e affannati rimpianti e – d’un tratto, come improvvisa epifania – la comprensione ultima della notte e della morte, anzi del viaggio, ormai disincantato, al termine della notte stessa.

La scrittura di Cappuccio (ri)assembla il puzzle del Bardo rimescolandone le tessere a piacere, cercando un’altra Atene in una Napoli supposta senza ‘o sole e ‘o mare, ma pur sempre uguale a se stessa nell’intima essenza, e, senza negare le sonorità dell’ordito shakespeariano, scommette di poterle, in qualche modo, ampliare, in un vernacolo al tempo stesso (e similmente al modello) illustre e gaglioffo, incistato com’è nella città dei simboli e dei miti antichi: lo storpiamento della lingua d’Albione si succede così a preziosità, ceselli e riccioli in quella di Dante e alle espressioni francamente partenopee, per cui si sciorina un “sugar spell” accanto a “io ‘a jetto ‘a coppa abbascio”, i “very dangerous” fan coppia coi “pere cata pere” e le “pazzielle scassate” coi “liric bolling”.

E la ricerca continua del “confine” (in questo caso (ri)creando una lingua che si contamina continuamente d’influenze viciniori) costituisce un po’ il senso e conferisce un timbro ben caratteristico a questa rappresentazione: così, perennemente lo spettatore viene portato per mano e lasciato sul ciglio, sul bordo del confine, del limite (guai a soffrir di vertigini, sospesi così sull’abisso), sia quello tra sonno e veglia – lapalissianamente – ma anche tra giorno e notte, morte e vita, giovinezza e vecchiaia, illusione e realtà, dramma e buffoneria, fedeltà al testo e continuo rimaneggiamento: una persistente ricerca dell’essenza borderline della realtà e del teatro, dell’incessante rituffarsi e compiacersi nella sostanza delle cose, che, poi, si sa, è fatta della stessa materia dei sogni.

 Sogno d'una notte di mezza estate | regia di Claudio Di Palma

La regia di Claudio Di Palma è perfettamente funzionale alla macchina teatrale ideata da Cappuccio, precisa, lucida, senza sbavature di sorta, grazie anche all’apporto delle scene di Luigi Ferrigno – che costruisce una sorta di palazzo da bella addormentata con cirri viticci caprioli fiocchi ciocche che s’avvolgono al tetto a graticcio che sovrasta la stanza ove soggiorna il gran letto del re e della regina delle fate, cristallizzandolo in una immobilità verde e gelida; gli elfi stazionano, invece, in temporanea catalessi, in teche di cristallo – dei costumi di Annamaria Morelli – candidi e barocchi dagli imponenti orpelli e improbabili parrucche quelli dei due regali protagonisti, semplicemente contadineschi e rustici quelli degli elfi – delle musiche scelte da Massimiliano Sacchi; soprattutto notevole il lavoro attoriale, sia da parte dei due protagonisti – poderoso, buffonesco e profondo l’anziano Oberon di Lello Arena ed elegantissima, volitiva, tenera la bianca Titania d’Isa Danieli – sia da parte dei comprimari – in primis il fanciullesco Puck di Fabrizio Vona, oltre agli elfi di Renato De Simone, Enzo Mirone, Rossella Pugliese e Antonella Romano – che, insieme, danno gran prova di sapienza teatrale, rendendo al meglio con liquida duttilità ogni possibile sfumatura, ogni passaggio dall’uno all’altro confine che via via viene attraversato, senza nulla perdere in profondità e allegria: il pubblico – teatro pieno, grandi applausi alla fine – mostra di aver compreso e apprezzato.

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