Il Trionfo del Tempo e del Disinganno

Per la prima volta alla Scala e in forma scenica, l'opera di Georg Friedrich Handel inaugura un inedito progetto barocco di lungo periodo al Piermarini

[rating=4] “Il Trionfo del Tempo e del Disinganno”, oratorio a tema meditativo del 1707 di Georg Friedrich Handel su libretto del cardinale Benedetto Pamphilj, per la prima volta alla Scala e in forma scenica, inaugura un inedito progetto barocco di lungo periodo al Piermarini.

L’oratorio, composto per la quaresima romana, non pretendeva in origine una sua rappresentazione a mo’ di opera, e del resto l’organico ridottissimo e le quattro parti altamente allegoriche difficilmente si adattano ai grandi palcoscenici teatrali.

La regia di Jürgen Flimm e Gudrun Hartmann non si può dire che riesca nel difficile obiettivo di trasformare in storia moderna un dialogo a quattro dalla trama esilissima, di contenuto metafisico e metaforico. I cenni di drammaturgia, che pure ci sono, vengono interpretati simbolicamente, situando la scena in una brasserie parigina di inizio ‘900. Il tentativo è giustificato da alcuni riferimenti del libretto e dalle suggestioni della musica, che vengono sviluppati non tanto dai protagonisti, la cui azione è piuttosto limitata, quanto dalla miriade di personaggi che si susseguono sul palco.

Un lungo bancone curvo chiude la scena dal lato destro fino al fondo, sulla sinistra sei ingressi fastosi, tra alte colonne semitrasparenti e in corrispondenza di altrettante tavolate, questi sono gli elementi scenografici permanenti tra i quali si pretende di svolgere l’oratorio.

Il Trionfo del Tempo e del Disinganno

I costumi dei quattro interpreti sembrano riecheggiare le fogge barocche, mentre il resto degli attori, mimi, ballerini e comparse è abbigliato in panni novecenteschi a testimoniare, forse, la longevità ed eternità dell’allegoria handeliana sugli eventi della Storia umana.

Il libretto è un manifesto di austerità e severità cattoliche controriformistiche. Bellezza vive secondo i felici dettami di Piacere finché Tempo e Disinganno non decidono di convincerla, con argomenti teorici ed esempi pratici, a cedere alla dura realtà delle cose terrene e caduche. A nulla valgono le lusinghe di Piacere: Disinganno e Tempo avranno la meglio e Bellezza abbandonerà la vita frivola e spensierata in favore di una condotta monastica, affidandosi alla cura di un angelo divino e alla mite pietà del cielo.

La musica di Handel è altissimo esempio di delicatezza e di armonia, con linee melodiche che toccano corde di una sensibilità davvero alta. I fronzoli tipici del barocco sono ridotti al minimo e lo stile inconfondibile del “caro sassone” sviluppa in questo oratorio brani di notevole qualità, alcuni dei quali vivranno successivamente di vita propria. Su tutti si distingue l’aria “Lascia la spina, cogli la rosa” intonata da Piacere, di carattere struggente e intimo, ripresa poi nella più famosa opera “Rinaldo” con le parole “Lascia ch’io pianga mia cruda sorte”, che ne hanno immortalato la melodia su un contenuto ancora più toccante.

La regia vanifica la bellezza di un oratorio tanto piacevole. Le distrazioni, per quanto possano essere drammaturgicamente giustificabili, sono troppe e, persino, rumorose. Non possiamo non imputare a Flimm le stesse carenze che avevamo mal digerito nel suo Otello di Rossini della stagione scorsa: il palco sempre ingombrato da oggetti e personaggi alla rinfusa, effetti di scena gratuiti i cui rumori sovrastano la musica, i costumi piuttosto insensati, la recitazione spesso fuori luogo e gli oggetti di scena perlopiù inutili e superflui.

La scenografia fissa e chiusa, inoltre, non dà respiro: perché tentare di trasformare in opera un oratorio, peraltro calandolo in un contesto arbitrario, se, di fatto, non si costruisce alcun immaginario narrativo? Tanto valeva ricostruire sul palco le fattezze di una cappella o di un palazzo o qualsiasi ambientazione che meglio rispettasse la destinazione originaria del Trionfo del Tempo e del Disinganno. Il risultato non si riesce ad inquadrare e, ahinoi, ci costringe ad assumere la parte della critica più conservatrice e tradizionalista.

Il Trionfo del Tempo e del Disinganno

Del tutto opposto il grande merito da riconoscere al maestro Diego Fasolis, che ha costruito un’orchestra barocca di eccellente qualità, potendo contare sull’esperienza e la professionalità dei musicisti scaligeri. L’orchestrazione delle partiture ha tenuto conto sapientemente dell’ampiezza della sala del Piermarini e l’effetto ottenuto è quanto di più filologico si possa ascoltare alla Scala. Il progetto di organizzazione di un’orchestra e una stagione barocche che il Sovrintendente Pereira ha affidato a Fasolis sembra essere riuscitissimo in questo primo importante passo, con un esito musicale senza dubbi apprezzabile.

Ottime le quattro voci impegnate nello spettacolo. Il Piacere, della soprano Lucia Cirillo, splendida per timbro, tecnica e fraseggio, primeggia sulle altri parti per ampiezza e corposità delle arie. La Bellezza è stata impersonata da Martina Janková, mezzosoprano con buona verve teatrale ed ottima espressività, impegnata nel ruolo centrale fornendo eccellente prova di sé.

Consenso di pubblico per il ruolo da contralto en travesti del Disinganno di Sara Mingardo, che richiede un’ampia tessitura, toccando un registro particolarmente basso senza mai perdere di virtuosismo tecnico. Unico uomo sul palco Leonardo Cortellazzi, il Tempo, forse il più debole per espressività, esibitosi comunque senza alcuna nota di demerito.

La musica di Handel e l’esecuzione di orchestra e cantanti sono state premiate dagli applausi sonori e appassionati della sala, sempre più affollata di quanto avevano previsto gli scettici.

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