Questa specie d’amore che nasce da “Il piacere dell’onestà”

Al Teatro Mercadante di Napoli fino al 15 gennaio

Le tre porte bianche sul fondo disegnano, insieme alle cornici, bianche anch’esse, in alto e in basso, su fondali e quinte implacabilmente neri, geometriche e rigorose forme che sembrano quasi dar corpo e sostanza al “pensiero astratto” di cui parlava Gramsci recensendo la prima de Il piacere dell’onestà del 27 novembre 1917 al Teatro Carignano; si delinea così uno spazio perfetto – hortus conclusus di vane offerte alle convenzioni del tempo e alla morale dell’apparenza – pure perfezionato e completato, sul davanti, verso il boccascena, da due divani gemelli, bianchi pur’essi, che nella forma e nell’aspetto ricordano marmoree panchine in attesa sulla piazza: e non contraddice, tale apparenza, lo svolgersi dell’intera vicenda nella stessa casa, anzi nella stessa stanza, affogata e senz’aria. Anche perché poi, alla seconda occhiata, t’accorgi che tutto quel nero, che pesantemente oscura sguardo e anima e pensiero, non è affatto opaco e smorto: in controluce, s’illuminano, quelle quinte e quei fondi oscuri, disegnati da Domenico Franchi, all’entrare in scena di qualcuno, o al sostare al di là di esse, offrendo in verità ben poca resistenza a sguardi e pensieri altrui. La stanza cupa e buia appare, dunque, alla fine, traslucida e vagamente opalescente e lucida, lasciando trasparire, se e quando necessario, la luce dell’esterno, membrana permeabile con diversificati coefficienti di diffusione, variando la penetrabilità sua dallo zero assoluto a quasi incondizionata nitidezza. Qui a Napoli, al Teatro Mercadante, la prima di questi tre atti di Pirandello, esatti esatti cent’anni dopo l’assoluto esordio torinese, ripropone “la vita pensata, la vita come programma, la vita come «pura forma»” – è ancora Gramsci nelle sue Cronache Teatrali su l’Avanti – come una grande parabola sull’onestà e i diversi modi di declinarne l’arduo e terribile concetto, allora – anni di guerra tra contrastanti imperialismi che mal tolleravano verità disturbanti – come oggi – tra relativismi e onestà sbandierate e agitate come clave – accettando il rischio di gettar via la maschera per far affiorare la carne viva, pure se fa male.

Così, già visivamente, il Baldovino pensato da Antonio Calenda, nell’interpretazione di Pippo Pattavina che si muove nell’astratto mondo daltonico che abbiamo detto, ha le fattezze del magrittiano omino in bombetta, palese espressione di conflitto tra visibile nascosto e visibile apparente, sostanza e forma, essenza ed apparenza. E se la redingote, espediente che accentua la somiglianza con l’avatar del surrealista belga, può variare dalla prima parte alla seconda e ancora alla terza, diventando più ricca e poi tornando ad esser povera, segno e simbolo dell’evoluzione del personaggio e delle fortune sue, la maschera permane fino alla fine, come la mela dell’equivalente pittorico, buona per nascondere pensieri e carne, anima e sangue. E poi si muove, il protagonista, alla ricerca di una forma onesta che più astratta non si può: “se io devo essere così onesto, bisognerà pure che io la viva — per così dire — quest’astrazione; che dia corpo a questa pura forma; che io senta quest’onestà astratta e assoluta”, preavvertendo il marchese facilone (Fulvio D’Angelo) di non facili conseguenze per quel “vile accordo” che stanno per stipulare. Comprendi allora che quello spazio di nero traslucido screziato di bianco ha la stessa valenza del cristallino azzurro delle tele di Magritte, aria profonda e tersa che tuttavia chiude e mortifica lo sguardo.

È facile, allora, lasciarsi andare, fare come Agata (Debora Bernardi), penetrare pian pianino in questa liquida e ammaliante ragione di Baldovino, percepirne il senso ultimo dietro le parole, osservarsi mutar di pensieri e stati d’animo, passando dal facile disprezzo – avviene lo stesso, con tutta evidenza, in questo nostro tempo, a ben pensarci – ad un sorprendente moto d’assoluto rispetto per l’onestà che non ci aspettavamo, e al piacere che ne deriva, in quest’uomo certo non banale ma, proprio per questo, maggiormente deprecabile. Fino a intravedere, dietro la maschera, una specie d’amore, uno degli infiniti possibili modi dell’amore, una diversa concepibile esistenza, pur’essa non banale, non conformista, non in linea con quel che pensa la gente, là fuori, oltre quel muro nero trasparente che improvvisamente s’imbianca di luce. Risponde, il cast, a questa concezione registica, con una recitazione adeguata pur se non esaltante, risultando, alla fine, i lunghi e argomentati ragionamenti di Baldovino, sconfinar in monotonia indolente un po’ datata: colpa, certo, pure del linguaggio, vecchio, come detto, di cent’anni, e che forse occorrerebbe un minimo attualizzare, pena perdersi tra i codesti, gli intesi e i nascituri: metter mano alla lingua di Pirandello non è peccato, se si salva la sostanza, se si opera con sensibilità ed equilibrio; inoltre occorre forse superare un po’ il concetto che recitare un dramma (questioni gravi, dunque) si debba farlo apparendo costantemente terribilmente seri e quasi sempre con una punta d’arrabbiatura nel contegno e nella voce: atteggiamento che, alla lunga, irrita non poco e perfino annoia un po’. Mostra tuttavia il pubblico d’apprezzare quest’allestimento, riservando, in particolare al protagonista, lunghi e calorosi applausi.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Attori
Drammaturgia
Allestimento
Pubblico
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questa-specie-damore-che-nasce-da-il-piacere-dellonestaIl piacere dell'onestà <br>di Luigi Pirandello <br>regia Antonio Calenda <br>con Pippo Pattavina, Deborah Bernardi, Valentina Capone, Fulvio D’Angelo, Francesco Benedetto, Marco Grossi, Santo Pennisi, Giulia Modica <br>scene e costumi Domenico Franchi <br>produzione Teatro Stabile di Napoli, Teatro Stabile di Catania <br>durata: 2 ore e 15' compreso intervallo <br>Napoli, Teatro Mercadante, 4 gennaio 2017 <br>in scena dal 4 al 15 gennaio 2017