
La scenografia stessa è in vendita. A fine spettacolo si possono realmente comprarne i pezzi. Divani imbottiti, tavoli di legno, sedie. Se nessuno li vuole restano dove sono, per la prossima data, il prossimo teatro. Sarà il caso a decidere, come spinte invisibili dirigono talvolta in direzioni di non senso, a scoprire cosa c’è dietro una paura, un desiderio errato.
L’idea che tutto sia in divenire, smontato e rimontato da noi o dagli altri, ben si combina con uno spettacolo che parla anche della morte, della fine come inizio, o scherzo della cronologia. Uno scherzo crudele, dove agire non è poi così automatico: se davvero tra un’ora sta per terminare tutto, cosa faccio? Mi dispero, mi sento sollevata, divento calma, ho voglia di telefonare a un uomo per un’ultima frase? Ci metteremmo tutti a danzare, pregare, o in silenzio guarderemmo un mondo che non ci appartiene, ispira repulsione? La vita si può anche non amare. O qualcuno o qualcosa, accanto a noi, potrebbe illuminarla. Un vacanza da noi stessi, un lampo breve. In riva al lago a sgomberare i ricordi pesanti, tornare, assistere a I passi ultimi, forse.
I passi ultimi è lo spettacolo ideato e scritto da Savino Paparella ed Elisa Cuppini, di Teatro delle Briciole di Parma. Una drammaturgia ispirata, che incrocia riferimenti letterari e filosofici, come Nietzche e la poetessa polacca Wislawa Szymborska – che fa del varietà del quotidiano uno specchio rovesciato. “ Il sole sfolgorò e si spense /Senza che ci facessi caso. La terra ruotò/E non ne presi nota.”
La tonalità anfrattuosa, massiccia di Paparella, si insinua quando la tensione si fa più viva; quando una sera, nella balera di turno, una compagnia di ballerini e cabarettisti deve interrompere lo show, perché una voce annuncia che è iniziato il conto alla rovescia per la fine del mondo.
Un luogo di gioia effimera diviene un laboratorio chimico dove osservare le reazioni all’ipotesi che la carne, il sangue, i pulviscoli spirituali di cui siamo composti siano degradabili, o non siano mai nati – perché sempre esistiti. Il ritmo si dissolve, poi si intensifica. Elisa Cuppini sfoga le sue incertezze con un assolo di danza molto sentito. L’intonazione di Savino Paparella si fa dolcissima, in flussi di compassione, mentre distribuisce al pubblico oggetti o parti di essi – serrature, chiavi, chiodi, diversi simboli di introspezione.
Il cabaret, su cui è incentrata la prima parte, risulta lievemente scarno, come non fosse ben rodato. L’indole comica, forse, potrebbe essere arrichita con numeri più decisi, precisi. L’immagine della balera come microcosmo calza, e ricordiamo che Ettore Scola ambientò un gioiello come Ballando proprio in una sala da ballo. Anche il pubblico è invitato a partecipare ad alcuni intermezzi dello spettacolo – scelta registica che ultimamente si nota in molte produzione teatrali. E che, se da un lato può suscitare qualche dubbio, dall’altro risulta una piacevole sorpresa per il pubblico stesso. Un momento per sentirsi parte di un insieme, usare l’aggregazione come arma contro la frenesia dei week-end, che spinge a una forzata espressione di divertimento.
I passi ultimi rilascia una sensazione inusuale, unione di incertezze fragili senza messaggi, sottotitoli, senza risposte. Per una visione della materia come inizio, denunciandone i limiti, l’essere data fissa sul calendario, regalo inutile. Invece di scambi di irrealizzazioni, fra individui che si stanno cercando.